Atlas
Già dal titolo, Atlas, si comprende come la ricerca di Alessandra Baldoni si ponga in una relazione di continuità con il celebre Bilderatlas dello storico dell’arte Aby Warburg: atlante di immagini (dedicato alla dea della memoria Mnemosyne), dove lo studioso tedesco esplorava le sopravvivenze e le permanenze, le latenze e le ritornanze dell’arte figurativa occidentale. Ma l’opera di questa autrice rimanda pure a un grande autore come Gerhard Richter, che nel suo Atlas (work in progress dal 1962) fa confluire immagini trovate e scattate da lui stesso, schizzi e ritagli di giornali, creando nuovi rimandi e connessioni che riannodano tra loro varie dimensioni temporali. Alessandra Baldoni non segue però un approccio antropologico e storiografico come quello di Warburg, il quale, a partire da immagini esistenti, le riconnetteva secondo una logica dialogica basata sulle sopravvivenze. E neppure ha un’attitudine enciclopedico-classificatoria: lei non vuole catalogare e mettere in ordine, ma creare nuovi accostamenti che ridiano vita al rapporto tra passato e presente, tra storie e vissuti, tra natura e interiorità. Le immagini che organizza tra loro in dittici e trittici non sono trovate, bensì create. Si presentano come un lavoro della riflessione e dell’immaginazione, della ricerca e del ritrovamento. Sono il frutto di una strategia visiva libera e senza vincoli, dove un’immagine diretta e documentaria può stare accanto a un’altra nata da una messa in scena costruita con cura; una fotografia scattata in museo di storia naturale si ritrova vicina a quella di un paesaggio nuvoloso; e la figura un uccello impagliato se ne sta accanto al dettaglio di un dipinto… La sua è una collezione di emozioni, una mappa ramificata e stratificata di analogie capaci di evocare stati d’animo, sogni e ricordi sospesi tra meraviglia e inquietudine, turbamenti e incantamenti.
Essenziali ed evocative, le immagini di Alessandra Baldoni, s’impongono allo sguardo per la loro forza magica e perturbante. Pervase da una sottile inquietudine, costruiscono una sorta di costellazione dove ogni opera rimanda all’altra, senza trasformarsi in una narrazione precisa e afferrabile. Nel frastuono della comunicazione la voce delle sue opere non s’impone con la forza chiassosa dell’evidenza, ma grazie a una tonalità sommessa e penetrante che le sottrae a ogni facile interpretazione e le trasforma in un dispositivo oscillante tra svelamenti e nascondimenti, apparizioni e occultamenti.
Simili a frammenti sospesi in un tempo dilatato e inattuale, le sue fotografie sembrano indugiare lungo una linea di confine dove il passato s’intreccia con il presente, dove s’intersecano vita, finzione, arte, silenzi, paesaggi, natura, vissuti, sogni e ricordi. Ciascuna immagine è un micro-racconto misterioso e sussurrato che si lega a un altro mini-racconto attraverso assonanze e somiglianze sotterranee, persistenti. Oppure, in altri termini, ogni fotografia sembra farsi simile al verso di una poesia che fa rima con un altro verso, e magari con un altro ancora. Come nei racconti di Sharazād anche nelle immagini di Alessandra Baldoni non c’è mai un finale, ma una sorta di interruzione/apertura verso altri viaggi dell’immaginario, verso altre possibili narrazioni che s’inoltrano nei recessi della memoria e avanzano verso il futuro.
Le sue fotografie compongono dunque una sorta di cartografia in divenire di un mondo fatto di accostamenti e legami sottopelle, carichi di rimandi e di echi in tensione tra loro. Sono un viaggio tra le nascoste e dimenticate corrispondenze tra uomo e natura, tra un passato persistente e un presente sospeso, che non è l’oggi e neppure l’altro ieri. Lei usa le immagini come le carte da gioco dei tarocchi: ogni immagine accostata a un’altra suggerisce nuove letture interpretative, nuovi percorsi del pensiero. Non si arriva mai a una verità definitiva: sono fotografie che si offrono come enigmi da interrogare, come inviti a ritrovare percorsi interiori, quasi fossero segreti posti in evidenza.
di Gigliola Foschi