Storie
“Storie” è il titolo di una serie di fogli di carta fotografica su cui Alessandra Baldoni accosta immagini a gruppi di tre, quattro, sei. Le immagini sono scatti in bianco e nero che, da subito, si riconoscono come parti del flusso del racconto autobiografico. Le composizioni sono accompagnate da titoli di una brevità laconica. Privi di date, dicono un luogo, il nome proprio di qualcuno, la scansione normale di una parte del giorno: Madrid, Hotel room Vicenza, Praga, Tiziana, Colazione.
Ma non si tratta di istantanee o di appunti. Dietro ogni scatto si avverte tutta la lentezza e l’attenzione della posa, sia che si tratti di esterni, di interni, di oggetti. Ogni singolo riquadro vale all’incirca una parola, puntuale o larga che sia. Ogni frame, scelto tra il continuum della quotidianità, acquista senso nella forma dell’insieme. Le pagine hanno dunque una scansione, una metrica; le cose che si vedono stanno dentro una struttura che è, volta a volta, una frase, un racconto, un verso. Le mani dalle braccia quasi conserte/ Solo più una mano. A capo. Gli occhi di un cane/ La corolla di un fiore o un frutto secco. A capo. Foto in cornice d’argento/ Lo stesso volto della foto fatto a disegno. Alessandra Baldoni è autrice di quattro raccolte di poesie: Malgrado (1993), Nudo di donna (1995), Ma.rea (1999), Albergo (2005).
Come ci dice nel secondo quadro di Colazione, tiene un diario che scrive- o ha scritto almeno quel giorno- appena sveglia (primo quadro), prendendo il caffè, un bicchiere d’acqua e una brioche (secondo e terzo quadro). La fotografia, dotata di una propria peculiare sostanza, serve dunque a una scrittura, declinata in un genere: la registrazione del diario che ragiona insieme le ore e gli accadimenti di una giornata con i pensieri e le emozioni che ha recato; la narrazione di un racconto che si fa a qualcun altro ed a voce alta; la libertà ellittica della frase poetica. Il titolo generale, nella sua semplice brevità, è in questo senso puntuale. Allude a una raccolta e a una pluralità di testi che corrispondono poi ai vari modi che ciascuno sa e trova per tradurre il proprio desiderio a narrarsi. Puntuale anche perché riferisce dei “tempi” di un’operazione che, lavorando sul presente lo ridice poi al passato, pronunciando la propria versione emotiva delle situazioni e degli accadimenti di prima. Sì, perché come scrive Adriana Cavarero nel suo Tu che mi guardi, tu che mi racconti – filosofia della narrazione (Milano 1997), “La vita non può essere vissuta come una storia, perché la storia viene sempre dopo, risulta (…)”. Per dichiarazione esplicita dell’artista, nello spiegare le sue Storie, la “narrazione” è anche “guarigione…anche quando fotografo la malattia di mio nonno, l’ospedale, la solitudine di mia nonna”. Serve a “esorcizzare la realtà”, a gestirne l’”emergenza”.
Colazione
Partire – divorando strade. Partire e giungere qui in questa terra piatta oppressa dal suo stesso orizzonte. La lontananza è una cicatrice smaltata di rosso. Mi accorgo che è il vuoto che cerco. Spazio invocato in cui urlare il tuo nome. Vicenza. Città bianca come fianchi di donna. Pesante di colonne tozze. Greve come un grembo materno. Silenziosa stamattina mentre prestissimo si sveglia. Corpi di marmo, movimento scolpito. Pathos – eccesso immobile. È tutto ad un punto dall’esplodere ma resta intatto. Le parole mi cadono intorno. Lingua dalla cadenza che somiglia ad un’ossessione. Ecco perché il verso è prigione. Tutto resta intrappolato. La lingua è un’armatura. Nubi schiacciate al suolo, ombre lunghissime. Il respiro si dissolve a fatica. Chiedo dov’è la piazza ad una donna. Mi dice di seguirla, va proprio in quella direzione. Passiamo sopra un ponte e l’acqua appena si muove sotto di noi. Questo scorcio mi fa pensare a Venezia. Ma è solo un’impressione. Vicenza è sobria, non conosce quell’abbondanza estenuante di elementi. La donna mi dice che questo è il suo ponte ed io le sorrido. Dice che la bellezza le salva lo sguardo nei giorni in cui il cielo è così grigio che pare tutto stia per finire o che niente possa più muoversi. Morire restando fermi, per inerzia. Poi mi saluta ed entra in un portone. Sullo stipite il volto di un demone pietrificato in un urlo. Questa lontananza è uno specchio che riflette lo sguardo della gorgone.
Hotel room Vicenza
La porta si apre appena e tu scivoli dentro la stanza come un’ombra. Qui non c’è via d’uscita, qui il cielo sta addosso, troppo pesante sopra la terra. L’aria è di metallo, segreta siderurgia di presagi. Lo sguardo ne resta stordito. Fuori la città è ferma, intrappolata in un gesto di pietra. C’è un vuoto, qualcosa che potrebbe accadere. Il letto scomposto racconta la mia notte straniera, le lenzuola sembrano piombo raffreddato, esito finale di una lotta tra il corpo e i messaggeri oscuri del sonno. Le stampelle sono scheletri sui quali non riesco mai a mettere i miei vestiti. Resterò poco. Il tempo di un’espiazione. Il ritorno è brace pronta a riaccendersi. Ti guardo e penso che potresti essere un angelo in questa tua forma prima del sesso, perfetta come la prima rosa. Né maschio né femmina ma eros dormiente la cui bocca inizia ora a tingersi della porpora del mattino. Ed io sono il primo rovo, la corona di spine intorno al cuore. L’abbandono è questo mare di sale e di ossa spezzate. Mi appoggio al muro e il freddo della parete mi dà un brivido. Bacio gelido che scompone le labbra. Guardami ora. Leggimi gli occhi o il palmo della mano. Apri in cerchio o quadrato le carte. Trova in me una colpa per maledirmi ora. Poi sarà troppo tardi. Poi resterà solo questa camera d’albergo e la tua attesa, sarà solo dolore nella mia e nella tua terra. Morso di serpente, veleno nei giorni di silenzio. Intanto fuori gli uccelli volano bassi, sfiorano i campi rincorrendosi e rompono le righe. Lingua incomprensibile nell’orizzonte translucido.
Hotel room Madrid
Fa caldo, un caldo che toglie le voglie, un caldo che invita all’inedia. Fuori la città si consuma, si tocca, si sporca, s’inventa e le voci della gente sbattono contro le mura e sui vetri facendomi immaginare confuse sceneggiature di vite sconosciute. La tenda si muove, si solleva. Forse un brivido, magari un’anima che pena. Un sogno abbandonato, un amore tradito. Mi guardo intorno e provo quella sensazione di precarietà che mi dà sempre una camera d’albergo. La porta è un sipario, la stanza un palcoscenico. Posso iniziare la mia storia. Ora non ho famiglia né antenati. Non ho nemmeno un nome se non quello che io decido. Pochi oggetti personali, pochi segni di riconoscimento. Scatola vuota, esistenza ignota. E non cambia essere qui con te, tu sei perfetto falsario di biografie. Sarà comunque un gioco uscire da qui come appena nati. E sentirsi senza errori, capaci di sorridere alla colpa. Diavolo d’un destino stavolta ti scombino. Mischio le carte, ho dadi truccati. Qui, almeno per il tempo di questi giorni, non moriremo e saremo sani e salvi, senza bisogno di un perdono.
Solo l’acqua di queste fontane potrà toccarci il capo e la fronte. Benedetta sia l’incoscienza.
Hotel room Ferrara
L’aria arsa di rame. Il caldo sale dalla strada come fumo trasparente degli inferi. Non c’è movimento, solo quiete ed inedia sotto questo cielo glauco che consuma ed ammala. Malia sottile che incatena alla resa, dolcissima cantilena di sottomissione. I tuoi occhi sono l’ultimo peccato. Lì ho scavato il mio rifugio. Tu scolori i miei confini. Il ventilatore fa un rumore lento, annoiato che sposta le tende della finestra in un volo appena accennato. Mi vengono in mente quei giorni al mare. I gabbiani intorno a te come in una danza alata e tu il loro giovane signore. Ho pensato che da un momento all’altro ti avrei visto divenire un uccello ed improvvisamente levarti in un volo lucente nell’orizzonte di madreperla. L’immortalità era correre a piedi nudi senza ferirsi in questo eden di acque salate e fiori di silice. Stamani seduti su scale di pietra abbiamo scritto. Schiena contro schiena come a ricomporre un’antica creatura. La parola è la nostra preghiera, le lettere sono un rosario sgranato lentamente. Il letto è pieno di pagine senza più padre o madre. Mischiate, confuse. Cenere sparsa sopra il perdono. Cenere sul capo chinato mentre dico piano il tuo nome. Sette lettere, sette per una benedizione sopra questo tempo incurabile.
Hotel room Praga
Il silenzio inonda la stanza e sbatte contro i vetri. Il mio cuore si fa clessidra. Aspetto che tu venga con i palmi pieni di sabbia e che decida la mia sorte. Mi viene in mente quel giorno che sorridendo mi hai detto di dovermi portare in un posto segreto. Mi hai condotto in cima, sulla fessura stretta, l’inguine scuro dei tuoi monti picchiati dai venti. Se alzi le braccia voli – ed è così selvaggio da mettere paura al mio corpo pesante che invoca la terra ad ogni suo staccarsi dal suolo. Mi sollevo ricado mi sollevo. Le braccia sono il rischio da correre ed il cappotto aprendosi diviene ala asimmetrica. Tu giochi con il cielo e potresti essere un angelo mentre io resisto poco ed ho la sensazione di mani che mi premono sul petto. Per me il volo è oppressione. Allora mi arrendo, lascio scivolare le braccia sui fianchi. Mi stendo a terra e ne respiro l’odore santo e la memoria. Resto immobile e ti guardo disegnare figure simili a ricami nell’azzurro. I tuoi passi sono leggeri, acqua e velluto sulla superficie, i miei vanno a fondo nella terra, zoccoli di cavalli armati di ferro. Solo la notte compie il miracolo e ricongiunge gli elementi. La spada del mio amore è pesante ma nelle tue mani volteggia sicura. Sono saette i tuoi movimenti, luce repentina al confine. Quando infine giungi l’orizzonte si è già trascolorato.
Perugia
Il nero del caffè è materia compatta che mi ingoia lo sguardo. Nel fondo resta sempre un po’ di zucchero. Cristallino ed indecifrabile presagio. Quando non ci sei sono capace solo di piccoli sguardi. È come se l’orizzonte si stringesse in frammenti di spazio dove segni scomposti del lago mi portano a te. Solo tu sei l’oriente, guidi i miei occhi oltre le colonne d’Ercole del quotidiano. Tu sei il sale, il sapore. Meridiani e paralleli si spostano quando sei lontana. Perdo continuità, il senso geografico del mondo. Ogni volta che te ne vai resto immobile per giorni, stordita. Tento di tracciare linee per capire dove mi trovo.
questo è il margine
la linea prima del nero
il bordo incerto dell’assenza
al centro tu
equatore di un’Africa
selvaggia
Poi istanti di dolcezza mi vengono incontro. Quando questo succede so che mi stai pensando. Sognando. Il lago di stamani alle otto. Intorno solo azzurro e bianco. I salti dei gabbiani. Il sonno che se ne va piano nei gesti lenti e misurati della colazione. Ti sarebbe piaciuto. Luce bianca come una benedizione. Perugia. Leggero vento che ricompensa la salita. La bellezza struggente del cielo sulle pietre chiare dei palazzi. La gente cammina e sorride. Ignara, salva.
Madrid
Arrivo – e la città è fulmine di luce sui palazzi grigio chiaro. Guardo il rosario appeso allo specchietto retrovisore del taxi e gli occhi veloci e silenziosi dell’autista. La prima sensazione è di fuoco che brucia stranamente ordinato. Arsura piena d’energia. Lentezza nei movimenti come un grosso animale sicuro del suo dominio. Cammino tra palazzi reali e torri di vetro, i fasti borbonici dell’antico e le simmetrie d’acciaio e cristallo del moderno che si posa sulle spalle possenti della pietra. Commistione. Donna immensa Madrid, donna sconfinata. Ed è sangue che sento sotto l’asfalto che scotta lo sguardo, nei vicoli stretti dei quartieri antichi, negli occhi di ghiaccio di Minerva che tutto sorveglia, decoro ricorrente nelle terrazze – che tutto sorveglia ma tace. Folli che urlano per le strade – cartomanti agli angoli – Madrid e le sue streghe. Lingua sussurrata d’incantesimo, dolce succosa melodia di frutto che si scioglie in bocca. Madrid di malasorte, di superstizione – paura della morte. Santini nei portafogli, alle pareti. Madrid mai sazia, sfacciata, dal cielo cobalto stretto intorno ai suoi angeli di bronzo. Lustrascarpe in ginocchio come fossero in preghiera – sembra di essere in un film, clienti seduti di un’eleganza vecchia maniera. Gente che dorme sulla via, cartone che avvolge i corpi abbandonati e il passo veloce delle tuniche nere dei prelati. Benedizioni date in fretta. Madrid che vuole tutto subito – adesso.
Bologna
Città dalla pelle perduta di serpente, vischiosità di pioggia appena caduta. Cammino veloce ed il mio passaggio è intrappolato dai portici, gugliate precise sul lembo incolore del cielo. Come corridoi d’ombra le colonne sono strette e le biciclette sono fulmini dai campanelli metallici. Il mio corpo cerca di sfuggire il contatto mentre lo sguardo s’appoggia sui dettagli. Demoni e satiri minacciosi, leoni alle maniglie dei portoni. Tutto è veloce, spietato. Istanti ostili di mani che chiedono, di odori pesanti, di occhi che prendono e di volti stanchi. Giovinezza già decadente. Urla di pietra. Bocche sfiorite, nascoste a metà dalla nebbia. Divinità irate alle finestre, in ogni fenditura. Strana stirpe immobile tra le mura. Prima del cielo, una linea muta di sguardi incombe sulle strade ed assiste indifferente ad ogni mio passo in questo giorno, tra questa gente. Questa città è fatta di guardiani e della loro resa. Non più pesa sugli occhi la ferita del sacro né interdetta è la soglia delle divinità di pietra. Gli dei hanno lasciato la città portandosi via nei palmi ogni segreto. Solo è rimasto il calco dei volti e dei corpi nelle mura. Una specie di antico segno senza nome. Intanto per strada al mercato i pesci sono appena ricoperti di ghiaccio. Hanno qualcosa di numinoso, come di un sacrificio non consumato. Occhi d’argento di una triste libagione.
Praga
Forse Praga è questo, le statue dei suoi santi e le mani tese dei mendicanti. Il ponte Carlo è un Leviatano nero dalle squame di elettricità e pietra. La nebbia resta ferma appena sopra le guglie e le torri come se volesse velare la città e renderla invisibile all’esterno. Lungo i bordi una processione di figure sospese tra le acque indocili del fiume ed il cielo sconsacrato di questo est dalle ali d’oro di angelo. Atlanti dai corpi tesi sorreggono balconi, l’odore di vaniglia e vino caldo riempie gli angoli delle strade, foglie scolpite s’intrecciano ai fiori nei decori dei palazzi. Lo scoccare dell’ora è un teatro di figure e falci minacciose – il tempo si è rinnovato ma qualcosa è andato perduto. Trascorso. Consumato ed irreparabile. L’arco del sagittario è pronto a scagliare la sua freccia di fuoco. Due donne a metà del ponte. Sono cieche. Con le mani cercano lo spazio. Si versano del caffè da un thermos. Gesti conquistati, tremore. Il fumo del caffè si scioglie in fretta. Il freddo non ha pietà. Poi una delle due si siede ed inizia a suonare. L’altra a cantare. Tutto si ferma. Diviene cristallo. La voce di lei è di una bellezza non umana. Questa musica è disperazione e salvezza. Armonia di sfere celesti. Lei canta ed il suo volto dagli occhi simili a bruciature diviene segno, racconto. Il vicolo d’oro è questo passaggio sotterraneo, questo fuoco interno che ribolle e forgia amuleti sotto la coltre di ghiaccio. Fuori la pelle è gelo composto, bellezza così evidente, inalterabile. Cartolina che nello sguardo già si fa memoria. Ma c’è dell’altro. Praga la intuisco nei suoi punti deboli. Nella povertà irrigidita dal freddo. Nella diffidenza di vetro degli occhi, nel rumore delle corone nelle cassette di legno delle elemosine. È questo canto di indigenza e abbondanza, questa voce di madonna tra stracci e vestiti a strati.
La camera di Giulia
Mattino ghiaccio e avorio sopra il risveglio. Il sole sorge lento. Come nebbia che dal basso sale la parola vela il mondo d’opacità e gioca a stanare bellezza dietro il suo stesso nascondimento. Mettere a fuoco, o decidere cosa deve essere a fuoco come in un gioco letale, il mio occhio aperto sceglie. Salva e condanna e spesso si ferisce dell’oro e del sangue del dolore che non so perdonare. Ed è malattia, ed è guarigione questo strappare territori all’oblio. È voce che cade dall’alto, lingua maledetta e redenta. L’innocenza è perdere il cuore ogni volta, udire il lamento degli angeli splendenti e spaventosi come le pietre di un mosaico. Questa lingua mi taglia i polsi, mi costringe a toccare il ventre incandescente della terra. Il centro di fuoco e serpenti attorcigliati, inchiodati alla pece indistinta di ogni inizio. Gli anni sono solo simboli, pietre lucide da guardare nei momenti di vuoto. Ho appreso dal mio lago i movimenti impercettibili delle acque. Seduta su pontili dalle gambe esili, strani animali bianchi e azzurri immersi a metà, ho aspettato il ritirarsi del lago dalla sponda incurante della terra. Intanto le alghe verdi salmastre s’aggrappano ad ogni colonna, ad ogni scalino. Mi fanno pensare alle anime dei suicidi. Acquosi gelatinosi tormenti. Nuotando nel lago si attaccano alle gambe, alle braccia e tirano il corpo a fondo. Ho provato questa sensazione di lacci d’erba alle caviglie e ai polsi. La mia parola nasce qui dove la seduzione si fa mortale. Questa superficie sembra un velo d’incanto posto sopra un segreto. Le mie divinità dimorano nel fondo. Ma l’immobilità è un inganno. Pronunciare il nome delle cose è un rischio. La parola è sabba, ritrovo stregonesco di forze nell’interno amaro di queste acque dolci. Catino ruvido in cui entro con le mani creando fessure, feritoie che potrebbero portarmi via le linee e il destino nei palmi.
La casa di Clara
Non si mangia mai sole. C’è sempre un ospite con noi al tavolo. Oscar Wilde in una cartolina sbiadita, un catalogo di Corneille. Ospiti silenziosi e presenti, scrutatori di carta. La piccola tavola finemente imbandita, i piatti di porcellana con al centro una filastrocca e come segnaposto una piccola pietra. I bei calici di cristallo custodi di brindisi amorosi, di segreti passati tra le labbra. Sei una donna di magnifica pazzia, sei una donna di eccessi, di sacra insensatezza. Intorno e d’ogni parte solo libri e oggetti d’arte. Non serve nient’altro, lo so. Al chiaro di luna risuona il tuo nome come un’antica rima. A volte mi sedevo a terra e restavo a guardarti come fossi un suddito ai piedi della sua regina. Come un mendicante che dal bordo polveroso della strada vede passare fastoso il corteo dei tuoi pensieri. Ciò che fa la differenza è quello che i più non notano. Sono i dettagli, le sfumature ricercate di colore. C’è un telefono in un angolo, la voce che ti porta fuori, l’alambicco di intricate vicende. L’amore è il gioco per restare in vita, complicato medicamento, pungolo, tormento che sfida i giorni. Ho una foto di te giovanissima. Sei esile e bellissima, sei un nodo di passione. Mi sembra di sentire il tuo cuore potente risuonare tra le ossa fragili come il passo di una guarnigione d’amore. Che fossero giovani amanti impazziti, diamanti disseminati sui pizzi del tuo letto, tu sei il centro perfetto di ciò che non conosce misura, l’occhio del ciclone, la verità nuda e pura. Che solo per amore vale la pena di giocarsi la sorte, che pur tra i tagli, è l’unica forma d’opposizione e resistenza alla morte.
Tiziana
guardo le tue mani
di terra redenta
stirpe violenta d’amore
guardo le tua mani
che paiono fiori
aperti e segreti
guardo le tue mani
e mi chiedo
quanta forza hai nei palmi
segnati di sangue
feriti da chiodi
il cui ferro la tua pelle muta
in anima d’oro e fuoco
perfetta
per divenire
amuleti d’amaranto
Sfuggo i tuoi occhi perché sono troppo per non perdersi come il bambino teme la notte che pure è il regno dell’incanto – e la chiama nel cuore. Così io ti guardo negli occhi gemelli di tuo figlio mentre a braccia appena conserte mi offri le pagine scampate all’amara compagnia della morte. È un dissotterrare parole, essere parte lesa.
Serpe
Serpe schiacciata dal piede di un santo. Il peccato è il sangue che resta sui sassi ma l’animale strisciando si rigenera come un pensiero che sporca le tempie. Conosco il tempo lento delle corsie, la luce al neon crudele come un bisturi. I piccoli fuochi del lumi si spostano al soffio rapido del mio passaggio. La luce invernale del pomeriggio crea chiaroscuri precisi nella cappella piena di fiori. Sacro cuore, cuore pugnalato. In mezzo al torace un buco, il vuoto, malattia che scava e leva, che si prende i giorni nei letti uguali e dalle lenzuola che infossano corpi. Resto nel buio e trattengo il respiro, spero che una carezza mi sfiori la fronte anche se i palmi sono feriti dal ferro dei chiodi. Ferro lontano, ormai colorato di ruggine ma non per questo meno mortale. La finestra è lo spazio che resta alla guarigione. Da qui si vede il lago. L’acqua sta ferma lì sotto e pesa sulla terra. Spinge a tal punto che pare ghiaccio e forse dal fondo è impossibile risalire. Si rimane lì come fantasmi, ombre appena accennate sulla superficie. Si dice che gli uccelli si posino sopra il lamento dei prigionieri. Disegnano un alfabeto fatto di rincorse nere dal cielo al lago e poi ancora al lago. Acque che mi hanno presa, acque che non restituiscono il cuore. Pali di legno trafiggono il lago, servono ai pescatori per orientarsi nella nebbia quando l’unica certezza è il remo che muove la barca. Sembrano lance scagliate dall’alto. Sembrano dire che non c’è scampo. Ed è qui che vengo ogni volta, qui su queste sponde basse e dolci. Il buco nel mio petto è la nostalgia che insiste e che solo nel lago trova battesimo.
Cura
Le reti gonfie di pesce, gli occhi acquosi brillano alla luce. Il sentiero per giungere al lago preme sotto i piedi nudi. Scalza è la stagione del dolore, della terra sventrata dai fuochi. Prima la guerra, i boati che rovesciano campi e chiese. Le pietre ammassate a terra come denti caduti. Prima il tempo del nemico, del volto d’ombra oltre la trincea. A volte hai indossato i suoi panni, rintanato nel bosco con i vestiti da cambiarsi, parlavi la lingua avversa e andavi col passo arrogante di chi rischia la morte per prendere il pane. La fame portava alla mensa del nemico. Sei stato soldato in paesi diversi ma la paura ha la stessa forma ovunque. Nascosto, naufragato, cacciato. Mi hai raccontato parole pallottole, parole come stivali neri sopra corpi morti. Prima la guerra e la pelle da salvare con tutto il suo amaro sacco di ricordi. Ed ora vederti perduto in un letto d’ospedale, inerme, con un filo di fiato mi mostra l’altra parte del soldato. Il destino non punta un’arma, in altro modo firma la condanna. È sottile la strategia del dolore, è osso del cuore scavato da un lento velenoso liquore. Ma voglio ancora pensarti sulla tua barca da pescatore, con il volto bruciato dal sole. E voglio credere che così te ne andrai. Semplicemente non tornando a riva.
La casa di Pavese
Il cielo teso come la corda di una arco. Chissà quale freccia scoccherà il giovane dio dall’occhio impassibile. La terra sembra essere aperta. Mai come ora i due regni si sfiorano e si mischiano. I vivi ed i morti. Quest’aria è follia lucida ed immobile. I campi arati e composti diventano scuri, fumosi presagi di abbandono. L’uva ha il colore sanguinolento dei morti. Il mosto non è ancora vino ma non è più frutto. Come un’anima divisa in due nel non tempo dell’incertezza. La notte prima discende sul capo e di pece colora lo sguardo. Questa sensazione di presenza. Ogni cosa è vicina, più reale del solito. Processione inesorabile di essenze – artigli sottili che lasciano piccoli graffi addosso. C’è qualcosa, una voce indistinta. Un verso – non so se di riso o di pianto. È la stagione delle forze prime. Anteriori a Cronos, all’ordine del tempo e agli dei che abitano dimore di marmi precisi. Non c’è ancora misura. Manca l’occhio azzurro di Atena, lo splendore di Febo. Il Minotauro muove passi sulla terra e non immagina la prigione geometrica del labirinto. È la stagione violenta di padri che divorano figli, di fuoco e metallo, di giganti furiosi. Il potere nero delle grandi madri. L’odore di zolfo. È il tempo delle possibilità.
Segni
Maree. Acqua che sale, acqua che scende. A volte mi sento perduta, guardo i miei palmi e so di non poterti toccare. Secche del cuore asciutto d’assenza.
La notte scende prima. Si poggia sulla terra pesante. Ed i giorni si staccano dal cielo come baci smarriti nel ricordo.
Prima di incontrarti un male sottile era ombra sul cuore. Come una nostalgia, come l’odore del mare. Soffrivo ogni volta che la bellezza posava la mano sui miei occhi. Soffrivo perché ero sola e non potevo dividerla con te. Mia cicatrice. Costola mancante. Fitta nel cuore. Ed è per questo che chiamo a raccolta le parole come sudditi. Alcune sono fedeli altre tramano alle mie spalle. Cerco di nominarle con regale determinazione. Racconto. Sono il tuo cantastorie. Il tempo non può procedere nella lontananza, senza me e te. Le parole sono il filo del chirurgo. Cuciono lo strappo, ricompongono la ferita.
Cane
Pane scuro della mia fame – cane dietro la mia ombra. La parola consuma le dita. La tavola è imbandita per me. Quando vengo a trovarla ha sempre qualcosa da offrirmi. Mi parla di suo figlio, del dolore che ormai è dentro le ossa, malattia costante che le impedisce di camminare. Custodisce i suoi libri, i suoi vestiti come se fossero l’ultima preghiera rimasta sopra la terra. Spesso resta in silenzio – a guardare chi manca. La memoria è simile a questo coltello. È lesione, ferita necessaria, unica possibilità di spezzare ancora il pane. Piccola corona di spine. Il lampadario si muove appena come sfiorato da un’anima. La neve copre le cose senza rumore. L’accompagno al cimitero. Camminiamo piano, passo lento della vecchiaia. I fiori devono sempre essere freschi perché l’abbandono è sterpaglia maligna, messe amara. L’odore delle fresie ammansisce la pietra, toglie un velo dagli occhi immobili dei morti. La sua mano porta un bacio al ritratto del figlio. La foto è una soglia, è quel che resta, è promessa di un ritorno. I calanchi sputano fumo, fucine nere di vertigini. L’amore insiste silenzioso. È una fedeltà che stupisce, che nel suo stesso pianto rigenera.
Mare
Sembra un immenso velo da sposa. Preparo le nozze nel cuore, mi avvicino alla riva. In fondo dopo il mare non c’è niente se non questo sale sepolto che riluce appena. L’acqua si lascia un’ombra alle spalle. Acqua di dolore, pianto sommerso delle stive. Acqua come pane quando con la bocca disegno la mia fame. Acqua che rende pesante la carta, che rinnega parole e macera lenta gli angoli appuntiti della mia grafia. Acqua necessaria acqua abbondante, violenta ed incostante. Stagione che non perdona. Aquila rapida che divora il fegato. Acqua mai prima bevuta, acqua d’amore pesante e muta. Acqua di guarigione sopra il tuo nome. Il mio mare porta a te, il mio mare sei tu. Il mio mare che mi tiene e trattiene, che mi accoglie tra le sue onde e le sue doglie di tempesta. Mare che mi rovescia, mi ribalta e mi ripesca. Mare gonfio di desiderio, gonfio e nero. Galleggio come il legno naufrago di una nave e continuo a cercare senza resa il pesce argentato del tuo cuore da prendere con le mie mani.