Vite di uomini non illustri
Sonata per storie ritrovate
di Cristina Petrelli
Il vento incessante, che rende inquieti, e quello lieve delle sere d’estate. “Vite di uomini non illustri” di Alessandra Baldoni (Perugia 1976), che prende in prestito il titolo da un libro di Giuseppe Pontiggia, fa pensare al vento. Al suono e al movimento del vento. L’artista utilizza delle vecchie fotografie. Le ha trovate rovistando nelle bancarelle di qualche mercatino. Si tratta di immagini prive di contesto, silenziose, che mantengono il fascino delle cose rare e delicate. Guardandole sembra di avere davanti degli spartiti musicali. Le note sul pentagramma attendono qualcuno che possa suonarle. Intanto restano mute, proprio come i volti che appaiono nelle fotografie. E la melodia tarda poco ad arrivare. Accanto alle foto, presentate in cornici diverse, compaiono delle pagine scritte. I testi, che raccontano le immagini, si trovano all’interno di cornici di colore bianco, tutte uguali.
Alessandra Baldoni ha spedito le fotografie, invitando gli amici a comporre delle “biografie creative”. Possiamo indicare così questi brani che riportano in vita i protagonisti delle immagini pur senza conoscerne la reale identità. L’unico dato in possesso delle persone coinvolte nel progetto è la traccia d’esistenza rappresentata dalla foto stessa. Gli autori dei testi hanno raccontato la loro storia, alimentando le infinite possibilità della creazione narrativa. “Ogni opera letteraria si rivela frutto dell’intelletto umano e anche il genere biografico è un attento insieme di arte e menzogne”(Jeanette Winterson).
I volti ormai senza nome delle fotografie non sono altro che schermi di proiezione per l’immaginazione dello scrittore. Consentono alle sue parole di correre libere. Parlano di vita e appartengono propriamente all’aria. Sono nuvole gonfie di pioggia. Note suonate da un’orchestra. Venti che trasportano sementi. Sono fatte di sostanza volatile.
Le storie si posano accanto alle fotografie senza sostituirle. Le animano, ricostruendo il passato delle persone ritratte. Ma forniscono solo una delle versioni possibili. Capiamo che i racconti potrebbero essere altri e tanti.
Attorno alle immagini si forma un insieme di mondi che esemplifica l’essenza dell’esistenza. La sua natura mutevole, fatta di costanti cambiamenti. In questo modo, se le parole fanno suonare le note delle fotografie, i racconti gli danno movimento. Così la stanza si satura di correnti al punto che potrebbe chiudersi d’improvviso la porta e spalancarsi la finestra. E allora basterebbe poco per sollevarsi da terra e venire trasportati dal vento. Il suono e il movimento si generano da un gesto molto semplice: l’invio della fotografia. Questa è la scintilla iniziale, ma l’operazione concettuale attivata dall’artista è più sottile.
Alessandra Baldoni non si limita ad utilizzare antiche fotografie, ma decide di realizzare dei veri e propri falsi storici. Cura i dettagli fino in fondo, sceglie il soggetto, l’abito, l’ambientazione. Torna alla foto da cavalletto, alla messa in posa del modello. Seleziona con attenzione la carta e lavora sull’invecchiamento del supporto. Desidera riscoprire lo strumento fotografico e ancora più relazionarsi con il ruolo che alla fotografia veniva assegnato prima dell’avvento della tecnologia digitale. Riflette sull’uso dell’album di famiglia, ormai scomparso, e sull’importanza della fotografia. Ne ripercorre l’uso: dall’aspetto rituale che scandisce i momenti di passaggio (battesimi, matrimoni, compleanni) a farsi sostanza tangibile della memoria individuale. Dopo essersi immersa completamente in questa fase di riscoperta, l’artista prende le sue nuove fotografie dalla foggia antica e le spedisce agli amici. Invia senza distinzione le foto autentiche, realizzate nel Novecento, e le sue, fresche di stampa. Non le interessa svelare il meccanismo. Un’ambiguità tra vero e falso che rimane anche nello spettatore che legge le storie e osserva le foto esposte. Uno scarto rispetto all’idea di verità che ancora una volta ribadisce come Alessandra Baldoni voglia affidarsi alla capacità creativa, alla fantasia e all’immaginazione. Non a caso sceglie la scrittura come mezzo ottimale dell’invenzione. E questo vento, che continua a soffiare, trasporta volti, parole, emozioni. Travolge con l’energia dell’esistenza e ne rivela la nascosta poesia
America
Dolce Madre,
ho ricevuto ieri la vostra lettera e la fotografia della festa trascorsa assieme. Ho provato così tanta nostalgia unita a una forza profonda. Ho sentito di appartenervi, ho visto nelle facce di ognuno la mia stessa, ho sentito il profumo dei mandorli e della mia terra.
L’ho tenuta stretta tra le mani, esattamente come voi facevate con il braccio di Ludovico, mentre il mio lo tenevo appoggiato sulla sua spalla, fingendo sicurezza e mente lucida. In realtà ero percorsa da una vertigine, come se stessi per precipitare, al solo pensiero che quello sarebbe stato l’ultimo giorno tutti insieme, prima della nostra partenza. Nella notte, quando il buio e il silenzio di questi luoghi senza ricordi diventa insopportabile, mi alzo e la cingo al mio cuore, nella speranza di alleviare il patimento e cercando di ricordare la vostra voce e le parole buone. Mentre vi guardo, penso che nei vostri occhi si cela una tristezza sommessa e questo mi fa scoppiare in lacrime. Non soffrite Madre mia!
L’America è una terra generosa e dalle grandi prospettive. Ludovico ha trovato un impiego in un salone per la conciatura delle pelli. Ma continua, senza tregua, l’attività politica in sostegno dei connazionali immigrati e gli studi di ingegneria. Lo conoscono in molti e gli italiani si rivolgono a lui per qualsiasi cosa: problemi nel trovare un alloggio, per l’invio delle rimesse in Patria, per lo studio dei figli e la sicurezza delle mogli, per trovare un lavoro etc.
Per quel che mi riguarda, i vostri insegnamenti di taglio e cucito, mi sono stati utili. Tre volte la settimana lavoro in un negozio di sartoria alla moda. Per il momento faccio gli orli e le imbastiture. Ma la proprietaria ha visto alcuni miei bozzetti di abiti femminili e ne è rimasta piacevolmente impressionata. La signora è la moglie di un professore veneto che abbiamo conosciuto in nave. Sono rari i casi in cui le donne americane sono sposate a stranieri. Chiaramente le unioni miste vengono ostacolate. Gli italiani sono considerati persone rozze e ignoranti, dei sempliciotti sporchi che portano malattie sconosciute. Per questo, sono tenuti lontani. Ma le cose cambieranno, quando si accorgeranno che l’America la stiamo facendo noi. Per esempio la signora che ti dicevo, oltre a gestire la sartoria dove lavoro, è molto impegnata nella politica. E’ a capo di un’organizzazione di sole donne che lottano per l’uguaglianza e il diritto al voto femminile. Ho partecipato spesso alle riunioni del gruppo e stiamo organizzando una grande festa per gli stranieri del quartiere. Lei dice che, solo quando ci consoceremo meglio, non ci vedremo più così diversi.
Nella foto che ti ho inviato è quella in prima fila. L’immagine ritrae la sfilata a New York in favore del suffragio femminile. Come puoi vedere io sono quella con in mano quel mazzo di fiori. Ma dietro di noi il corteo era lunghissimo, unite sfilavamo nei nostri abiti bianchi, in mano le bandiere, al motto di “Voto alle donne- Voto alle donne!” Come potrai vedere ho accorciato i capelli e perso qualche chilo, ma sto bene.
Un giorno anche in Italia, le donne finalmente urleranno con forza il desiderio di essere riconosciute. Capiranno di non essere solo mogli, madri e figlie. Le donne cammineranno allo stesso passo degli uomini, non più tre indietro.
Tutti possiamo scegliere come vivere.
State serena Madre mia. Presto vi scriverò ancora.
Con amore e gratitudine.
New York, Dicembre 1912
Alba
Angelo Crispolti
Sua Eminenza Monsignor Angelo Crispolti, il nuovo Nunzio Apostolico, ci fu presentato una sera del 1938 durante il ricevimento di fine anno offerto nel salone d’onore del Palais Matignon al corpo diplomatico accreditato a Parigi. Mio marito era un importante funzionario del Ministero degli Interni francese e l’alto prelato, in via del tutto riservata, colse l’occasione per rappresentargli l’intenzione personale di Sua Santità il Papa di facilitare l’espatrio in Francia di numerosi cittadini italiani di religione ebraica, poiché rischiavano di trovarsi in grave pericolo in seguito all’approvazione delle leggi razziali da parte del governo fascista.
Mentre lo ascoltavo parlare con tono sommesso, cresceva in me la sensazione di riconoscere nell’espressione del suo viso i tratti, certo un po’appesantiti, del volto di giovane uomo che ero sicura di aver già avuto l’occasione di osservare. Fu quando lo vidi ascoltare in modo distaccato le argomentazioni di risposta da parte di mio marito che finalmente lo riconobbi.
Ricordai che almeno una trentina di anni prima avevo ricevuto dal Conte Vincenzo De Paoli, un caro amico italiano assiduo frequentatore dei migliori locali alla moda di Parigi, la bella fotografia di un giovane ritratto in atteggiamento altero ed insieme rilassato. Nella lettera di accompagnamento mi confidava che si trattava di un suo nipote da parte di madre, amante degli studi classici ed avido lettore di romanzi storici e di avventura, il quale si era sempre tenacemente opposto al progetto del padre, ricco allevatore di bestiame della bassa pianura padana, di affidargli presto la completa gestione dell’azienda . Vincenzo mi chiedeva la cortesia di introdurre il nipote nei circoli letterari di Parigi durante il periodo di soggiorno che, contro il parere del cognato, aveva intenzione di regalargli con lo scopo di migliorare la sua conoscenza della lingua francese.
La prima impressione che ebbi osservando la fotografia di quel giovane, fu che si trattasse in realtà di un seminarista vestito da dandy. Di fronte all’ostinazione del figlio, immaginai subito quelle che, ragionevolmente, potevano essere state le parole stizzite urlate del padre.
“Se ti piace tanto leggere e fantasticare, allora vai a farti prete. Lascerò tutta la proprietà in dote a tua sorella e le troverò un buon partito degno della nostra famiglia, stupido ingrato”.
E così aveva fatto. D’altra parte, conoscendo bene il carattere spregiudicato ed irriverente di Vincenzo, non mi fu difficile supporre che non avesse avuto remore a presentarsi in seminario, riuscire a prelevare con una scusa il nipote, affascinarlo con il miraggio di un viaggio a Parigi, procurargli vestiti eleganti, convincerlo a seguirlo nello studio di un fotografo compiacente e consigliargli lui stesso la posa da assumere in quell’immagine, in modo da presentarsi nella maniera più adeguato nei raffinati e liberi ambienti d’oltralpe. Mentii anch’io nel mio biglietto di risposta. Confessai a Vittorio che mi dispiaceva immensamente non potergli essere utile, poiché nei mesi successivi sarei stata costretta a trascorrere un lungo periodo di riposo fuori città. Ma quella sera del 1938 nel salone d’onore del Palais de Matignon mentre guardavo Sua Eminenza Monsignor Angelo Crispolti parlare con mio marito di delicate questioni diplomatiche, tutto fasciato nella sua tonaca nera, con la papalina in testa, la fascia di raso rosso ai fianchi, l’anello impreziosito da un brillante al dito ed il fedele segretario con gli occhi bassi fermo al suo fianco, ebbi la conferma che trenta anni prima avevo ben compreso la vera natura di quella fotografia e che la scelta fatta del padre per quel ragazzo era stata, in fondo, la migliore.
Marie Louise de la Riviere
L’attesa
1939 novembre
Quel giorno ti ho salutato piangendo, gettandoti al collo le mie braccia magre.
Ho stretto gli occhi nell’attesa, aspettando il tuo ultimo lunghissimo bacio prima di andare.
Ho giurato: ti aspetterò sempre…
1940 maggio
Ogni lunedì arriva la tua lettera.
Ogni lunedì con un occhio all’ingresso di casa aspetto l’arrivo della tua busta, la carta che hai toccato, sfiorato, leccato, stretto a te con l’impronta di un dito.
1941 maggio
Lunedì, il giardino in fiore.
Odore di rose si spande nell’aria, mentre apro la tua lettera a volumi d’inchiostro.
Ti aspetto.
L’attesa, mi dissi, è destino primigenio di una donna.
1941 novembre
È lunedì.
Ogni lunedì scendo sull’uscio.
Arriverà la tua lettera oggi.
Arriverà.
Da tre settimane non ho notizie di te. Ti aspetto.
1941 novembre
Giovedì. Finalmente una lettera. Una lettera con un timbro violetto e una parola su tutte: Caduto.
Deve esserci un errore. Non arrivano mai tue lettere il giovedì. Deve esserci un errore…
1945
L’ho sentito alla Radio che è finita la guerra… Tu stai tornando. Lo so, ti aspetto. Ho indossato il vestito lilla che ti piaceva tanto.
1952 maggio
Ti aspetto..
1956 maggio
Aspetto…
Bianca Flora Bernardini non voleva crescere. Questa era la prima cosa che ti diceva. Se avevi la fortuna di incontrarla e di trattenerti un po’ in sua compagnia, ti fissava senza scampo e ti inchiodava con le sue strane dichiarazioni. A quel punto tu non sapevi dove guardare, cosa dire. Qualsiasi cosa all’improvviso appariva scontata e insipida davanti allo sguardo serio di quella bambina seria. Per questa e per altre sciocchezze Bianca Flora Bernardini era considerata diversa. Prima di tutto non piangeva mai o, più precisamente, non l’ho mai vista piangere né sentito qualcuno che l’avesse sorpresa a farlo, poi non aveva le tipiche paure dell’infanzia. Amava i ragni e in generale gli animali sia con zampe che striscianti, a eccezione delle galline che reputava ripugnanti. Per questo non ne mangiava la carne e, a un certo punto, neanche le uova. Inoltre amava girare di notte, al buio, portandosi appresso la Gina. Se la incrociavi per i corridoi della lugubre casa paterna, almeno le prime volte, rischiavi un malore. Perché Bianca Flora si muoveva al buio, senza lampade, e senza manifestare la propria presenza. Era silenziosa come un gatto. Per questi motivi e per molte altre stupide ragioni la gente evitava di rimanere in sua compagnia. L’unica che non l’abbandonava mai era la Gina. E, fino a quando non era entrata a far parte del mondo dei grandi, anche sua sorella Clara. Poi Clara, da un giorno all’altro, era, come si dice, sbocciata. Aveva smesso le vesti da bambina per indossare corpetto e gonne, aveva raccolto i lunghi capelli non più in trecce ma in elaborate acconciature che lasciavano nudo il collo. E soprattutto aveva interrotto l’abitudine di trascorrere le giornate insieme a Bianca Flora, nell’esplorazione del mondo e nella creazione di continui viaggi immaginari, nell’invenzione di sogni e di futuri. Non facevano più enormi corone di margherite insieme, non cavalcavano il pony né si rotolavano ancora tra le violette per sentirne il profumo tra i capelli giorni interi. Aveva finito per non parlare quasi più alla sorella e anche quando posava lo sguardo sulla bambina sembrava non la vedesse. Bianca Flora Bernardini certe cose non le perdonava facilmente e quando comprendeva che qualche giovanotto si trovava in salotto per far visita alla sorella portando mazzi di fiori o scatole di cioccolatini, che poi Clara non mangiava per paura di ingrassare, la bambina si divertiva a escogitare fantastiche torture per i poveri giovani. Infilava rane nella teiera, lombrichi tra i tramezzini, girini nella brocca dell’acqua. E poi scappava. A volte per due o più giorni. Prendeva la Gina e un fagotto con formaggio e pane e spariva. Le prime volte tutto il villaggio si metteva in sua ricerca, la Madre e il Padre contattavano le autorità temendo il peggio. E Bianca Flora, puntuale, quando i viveri erano terminati, ricompariva sporca, stanca ma sana e salva. Era uno spirito libero, originale, insofferente a qualsiasi imposizione. Non andava a scuola, aveva un precettore che veniva ogni giorno fin alla grande casa in cima alla collina per insegnarle ciò che una fanciulla di buona famiglia era tenuta a sapere. Ma, appena chiusa la pesante porta dello studio paterno, Bianca Flora e il Signor Edoardo erano soliti abbandonare il tracciato già così a lungo percorso da tanti scolari per addentrarsi in conversazioni illuminate. Bianca Flora Bernardini amava molto il suo precettore. E l’uomo era affettuoso con lei, cosa che, una volta scoperta – la cuoca aveva sorpreso Bianca Flora sulle ginocchia del Signor Edoardo – aveva provocato l’allontanamento repentino dell’uomo. La bimba si era chiusa in uno dei suoi mutismi senza appello e poi, una domenica di primavera, poco prima di recarsi a messa con tutta la famiglia, era scomparsa. Inizialmente la Madre e il Padre si erano innervositi più per il cambiamento nei programmi ben oliati della loro routine ma poi, con il passare delle ore e con la scoperta che nulla mancava dalla cucina, né dalla camera della bambina, avevano iniziato a temere il peggio. Ci mettemmo di nuovo tutti in sua ricerca ma la bambina era come smaterializzata. Solo dopo settimane, dietro il muro del vecchio cimitero, fu ritrovata la Gina che Bianca Flora portava sempre con sé. Era rimasta a lungo alle intemperie e quel ritrovamento gettò tutti nella disperazione più profonda. Bianca Flora Bernardini mai avrebbe abbandonato la sua bambola. Bianca Flora Bernardini non voleva crescere, la Gina era la sua àncora nell’infanzia. Eppure so per certo che da quella domenica Bianca Flora non era più una bambina ma, suo malgrado, il corpo l’aveva tradita. Sono stata la cameriera della famiglia Bernardini per anni e quando quella sera, cercando tra le sue cose nella stanza abbandonata, ho ritrovato le bende sporche di sangue ho compreso che Bianca Flora non sarebbe mai tornata. Perché quando lei decideva una cosa nulla la fermava. E Bianca Flora Bernardini aveva deciso categoricamente che non sarebbe cresciuta. Mai.
È lì immobile e fredda
È lì, immobile e fredda come una caverna inesplorata.
Un fuoco sembra averle bruciato le emozioni, il cuore di carne ha lasciato il posto al vuoto di scelte obbligate che sminuzzano l’anima come macine spietate.
Lei è sola, cittadina della Tristezza, sente il livido dolore dell’assenza: gli occhi amati dove ormeggiava nascosta deve tenerli lontani.
Le mani stringono avide il profumo di quel giorno in cui ha cinto la Sua schiena per la prima volta, era novembre. Sapeva fosse sbagliato iniziare a respirare la vita con un uomo diverso da quello scelto col matrimonio, ma l’anima fioriva ad ogni Suo sguardo, ogni parola professata o celata nel silenzio dell’ascolto sembrava essere un altro anello della catena che li aveva uniti senza soluzione, un’altra pietra poggiata a plasmare un sentimento che cresceva impetuoso e forte come la furia degli inverni siberiani.
Lui la riempiva. Mutava le sue fragilità di donna in bellezza, significava i sospiri innominati, le scrutava il cuore assetato di brividi e parole di carne, arrivava dove nemmeno lei sapeva trovarsi, negli angoli, tra le pieghe dei sensi. I suoi silenzi erano per Lui un libro aperto in cui assaporare giovani venti.
Un inizio flebile, fatto di passi taciturni e unisoni, diventato grido e mare in burrasca.
Nei giorni si sono amati e conosciuti, fin nelle rughe della pelle, fin nel midollo delle emozioni, nelle ossa, uniti in un amore sconosciuto prima, contemplato dai poeti ma di cui il cuore non aveva memoria. Lei lo aveva trovato, totale, la trascinava nel grigio del mondo con la passione dei bambini in festa, con la forza disperata di chi si aggrappa alla vita con mani affamate, con la leggerezza delle nuvole primaverili, sentiva di appartenergli e non voleva altro che questa rossa schiavitù.
Ma Lui non era suo marito.
Ora è seduta come arresa, soldato preda di un amore irrazionale, proibito.
Amore che non immaginava esistere senza misure, piombato fuori tempo come meteora rovente a fenderle l’esistenza, ad aprirgli la finestra sul desiderio, svelandole la sazietà di una fusione completa di anime uguali.
E farne a meno ora.
Amare e dover guarire.
Lo sguardo chino, gli occhi stanchi vedono in ogni battito del mondo trama e ordito del viso amato, è consapevole di una rinuncia che è sale su ferita infuocata.
Deve lasciarlo l’amore, farne fardello, scomporlo, nasconderlo come scrigno indesiderato nel magazzino dei ricordi.
Non vuole, ma deve, dimenticare e rinunciare per rispettare la morale del suo antico cuore.
E’ inerme, prigioniera consapevole di una vita non sua che la costringe e le comprime il petto con morsa sapiente e cruda. Sa che rimane solo il penare per scelte sbagliate del passato, e lo fa, sola e silente.
Onora le promesse perché son gemme sull’altare del buonsenso, perché nulla vale più di un buon nome.
E’ estate, ma il gelo scorre nelle vene tese come corde di violino, l’amore è delirio irrefrenabile senza soluzione.
Guardo i miei figli giocare nel viale
Leo corre così felice dietro alla palla, Sarah in bicicletta sembra rincorrere le nuvole, invece Frank adora osservare gli insetti: suo nonno gli ha fatto proprio un bel regalo di compleanno, con quella lente di ingrandimento il micro-mondo è una scoperta incantevole!
Chissà a che ora arriveranno i parenti di mio marito.
Sono sempre un po’ in apprensione quando vengono a farci visita… non hanno figli e non amano giocare. L’aria che respirano in banca non é certo buona di spirito…
Comunque, sono molto felice in questa nuova casa di campagna, il frutteto sarà bellissimo a primavera e faremo dei picnic in giardino.
Certo, ancora ci sono molti lavori da completare… si sentono vuoti rumori e mi piacerebbe molto arredare le stanze con mobili di rovere e tappeti indiani… ricoprire l’esterno della casa con edera e rose <Ha proprio avuto una bella idea il giardiniere>.
Devo avvertire Maria di accendere il fuoco!
Questa sera ho pensato di preparare una bella zuppa di rape e broccoli carote e pepe nero.
Ci vuole impegno nella vita, questo è il messaggio da trasmettere ai miei figli.
I valori del nuovo mondo nascono dall’osservazione della vita, in generale, l’osservazione degli eventi interiori come quelli mondiali, delle emozioni ad essi correlate, i rapporti con gli altri esseri umani, conoscere le persone, i turbamenti e le gioie innescate dalla relazioni, l’osservazione semplice e naturale, senza giudizi di sorta, di ciò che ci sta intorno.
Questo posto sta producendo in me una rivoluzione interiore, un cambiamento già visibile anche agli altri… libera dal pregiudizio che nasce dalla presunzione… dagli ambienti chiusi… è un cambiamento leggibile nei miei occhi, nel mio fisico, nel modo di vivere all’aria… lo sento… domani mettiamo le tende nel balcone della cucina… la luce che entra in cucina è stupenda… ogni cosa mi appare bella…ero diversa io… dopo quell’incontro in ospedale, ho deciso di non mettere più in discussione la mia vita, di non negarmi il contatto con la natura e di guardare a me, alla mia famiglia: dare la possibilità agli uccellini grandi o piccoli che siano, di fare i loro nidi stagionali ed imparare da loro come contemplare l’essenzialità strutturale, composta da incastri volumetrici perfetti di piccoli rami, foglie, carte, tutto fornito dalla natura gratuitamente, svegliarsi al mattino e creare… questa vita!
Il sapore della lavanda durerà tutta l’estate, chissà a che ora torna mio marito… la gioielleria è chiusa il sabato , speriamo siano buoni affari…
Li stupirebbe molto sapere
Il 24 ottobre 1929 nello stesso istante Irena Xhenaj e la borsa di Wall Street crollarono: la prima fu stroncata da una emorragia post-partum, la seconda provocò tante emorragie. In tutto questo riuscì, anche se con una testa rossa e piegata, a nascere Bridgjilda, l’unica figlia dei coniugi Xhenaj. In Albania i padri non potevano assistere ai parti, non c’era una regola scritta o una legge che lo impedisse, era solo immorale e vergognoso e Mark Xhenaj si sentiva molto fortunato per questo.
Era un uomo gracile con la mascella pronunciata, aveva le mani piccole ma la pelle era dura come il cuoio. Aveva tremendamente paura dell’immondizia in estate, degli scarafaggi e della solitudine ma non poteva ammetterlo. Quando venne a conoscenza dell’accaduto non riuscì a decifrare bene la sensazione che provava, forse non si era mai sentito così, fu attraversato da un miscuglio di sentimenti che esternamente provocarono in lui solo un leggero tremolio delle labbra, ma dentro le pareti crollarono e si incendiarono. Era solo e per quanto non avesse mai provato un sentimento diverso dalla pena per sua moglie si sentiva triste, svuotato e colpevole. Di amici non ne aveva mai avuti, i genitori e i fratelli non gli rivolgevano più la parola, i rapporti umani li aveva sempre trovati inutili o forse erano gli altri che trovavano lui non necessario per tutto tranne che per il suo lavoro.
Era l’unico fotografo a Shkodra, l’unico non per le sue capacità o il suo talento ma solo perché possedeva un banco ottico ed in quegli anni non era facile trovarne. Odiava il suo lavoro, lo portava, per ovvi motivi, ad avere dei contatti con il genere umano. Ogni volta che terminava il servizio, tutti si comportavano alla stesso modo: una volta finito lo retribuivano e lo accompagnavano all’uscio senza una parola, senza stretta di mano. Non aveva una grande reputazione, era risaputo che maltrattasse la moglie e che i familiari non lo consideravano più, alcuni dicevano che aveva tirato un bicchiere ad una cognata perché glielo aveva riempito poco durante una sua visita, altri dicevano che non era stato un bicchiere ma un portagioie e perché lei aveva respinto un suo particolare approccio. Ma Brigjilda non sapeva tutto questo ed era, contrariamente da lui, felice di esser nata, sana e forte, e sin dall’inizio fece sentire a tutti quanta potenza avesse nelle corde vocali e quanto funzionasse bene il suo intestino. Il Sig. Xhenaj assunse una nutrice e non volle saperne nulla della creatura finche non imparò a camminare ed a scorrazzare per casa così rumorosa ed energica.
Dal giorno in cui lei nacque, lo stesso in cui morì sua moglie e cadde la borsa, non riuscì più a trattenere la sua ira: si era rinchiuso in una solitudine totale, passava il tempo in camera oscura a strappare fotografie e a dare pugni al muro, fotografava pochissimo e viveva coi pochi risparmi che aveva, a malapena riusciva a pagare la balia: era finito ad offrirgli solo il vitto e l’alloggio ma lei rimase comunque perché era sola e si era affezionata alla bambina.
Il 24 agosto del 1931 il sig. Xhenaj riprese il suo banco ottico e si piazzò nel cortile, lo fece perché quel giorno era davvero bello e l’unica cosa che meritava di essere fotografata per lui era l’aiuola ma nell’istante che stava per scattare la piccola Brigjilda si fermò parallelamente a lui: la prese in pieno, la congelò sulla pellicola, indelebilmente. Quando la stampò gli si riempì il volto di rabbia, Brigjilda era per lui la responsabile della sua vita mal riuscita, provava così tanto odio verso di lei che l’avrebbe uccisa, strangolata con le sue mani e schiacciata fino a farla sparire.
Pochi giorni dopo il corpo del signor Xhenaj venne ritrovato sulla riva del fiume Drin da un gruppo di donne che stavano lavando i panni. Quando lo spostarono, dalla tasca interna della giacca cadde una fotografia: in questa foto c’era il cortile di una casa, una bambina con un vestito bianco e il dolore di un padre incapace di mettere a fuoco l’amore.
Il mio corpo è la mia casa
“Il mio corpo è la mia casa.
Pertanto vago e basta.
Ovunque il sogno mi porti.
Nella solitudine non ho bisogno di particolari premure.
Mi vesto leggera di fiori e vago tra i prati e la notte.
Dal giorno di quell’infuocato addio ho detto no al rancore e all’odio.
Cammino sui tappeti di ricordo e vengo a trovarti quando tutto tace.
Non fermarmi – non potresti – lasciami solo entrare quando è il momento per poi andare via.
Ti cullerò nei periodi infami e sarò un tormento quando il sole è alto e il giorno fatto.”
Questo disse la prima volta che la vidi, come se recitasse un salmo o una ninnananna.
Rimasi stordito perché mi parve di toccarla come mai nessuno.
Il tempo passava e ogni volta che chiudevo la porta e fuori era buio lei tornava a bussarmi: mi guardava dritto al centro della mia coscienza troglodita.
Quando andava via mi crucciavo nel tentativo di ricordare dove l’avessi vista prima.
Il buio divenne dolce e il tormento del congedo sempre più lancinante.
Lei non mi aiutava a capire se e dove l’avessi vista.
Spesso la incontravo nella brughiera davanti casa mia.
Sorrideva e si fermava.
Smise di chiedermi il permesso di entrare quando io esclamai per la prima volta:
“Vieni, entra!”
Pensavo che da lì in poi saremo vissuti io e lei, la mia musica, la tenuta di famiglia, la brughiera, la notte, il mare.
Insomma, due colori che diventano un terzo, l’uno più uno che da il due (ma che rimane incompleto se non arriva il tre).
Mi addormentai una sera davanti al camino e mi comparve l’immagine di mio nonno quando arrivati in questa casa dal sud, bruciò quella foto sopra al camino.
Parlavo e giocavo con lei ogni sera.
Non sapevo più dove avevo vissuto.
E quando bruciava lei mi guardava.
Io mi chiamo Leo
Perché sono come un leone: vivace, irrequieto, istintivo, coraggioso.
I miei compagni mi ammirano. Sulla nave dove ogni giorno faccio partire i siluri,
sudando come nella savana tra i vapori della sala macchine, mi rispettano,
perché non lascio mai il mio posto.
Combatto fino all’ultimo.
Guardo in faccia la morte. E ne rido.
Perché so che il valore è la mia spina dorsale e l’orgoglio il mio midollo.
Oggi sono qui, seduto su un divano di pelle.
Non sono abituato all’aria chiusa di una stanza e al suo silenzio.
Ormai mi è familiare l’odore del sale che le onde sprigionano e il verso dei gabbiani
che danzano nel cielo.
Ormai mi è familiare far luccicare i miei verdi occhi alla luce del sole allo zenith
e guardare l’orizzonte vuoto e infinito.
Ormai mi è familiare sapere che forse domani potrei non esserci più.
Ma oggi torno a casa.
Sono spaesato. Ho ricevuto una lettera giorni fa.
Un amore che pensavo di non avere più. Un amore che pensavo mi avesse dimenticato
e avesse smesso di aspettarmi. Pensavo di non aver più nulla che mi legasse alla terra.
Che fossi ormai destinato a guardare nel profondo dell’oceano senza scorgervi un volto,
tra i suoi riflessi.
Ho finito il mio bicchiere di whisky per la seconda volta.
Ma ancora i miei nervi non si sono sciolti. Ancora sento i nodi girarsi e stringersi.
Peggio delle corde che intrecciavo ogni giorno, trecce complicate che la mia anima tesseva,
perché cercava qualcosa di sicuro e saldo, che non si potesse spezzare.
E incrocio le braccia a tal ricordo.
Vorrei poter dire al mio amore lontano che in realtà ho bramato dal primo giorno di tornare
nel suo abbraccio, poggiare il viso sulle sue spalle e sentire calde lacrime scorrere giù,
inebriato dal profumo dei suoi capelli, intenso come quello di un campo di lavanda.
Però so che quando stringerò a me il suo corpo, morbido e avvolgente, tra le lacrime che verserò
ce ne sarà una anche per i gabbiani, le onde, il sole e per quando guardavo in alto il cielo nella sua
ignota infinità, con una stretta al cuore tra il terrore e il sublime, sapendo che potrebbe essere per
l’ultima volta.
Jeremy Smith
Il Giudice Thomson gettò un’ultima rapida occhiata alla fotografia prima di riporla definitivamente nel fascicolo da inviare all’archivio del tribunale.
All’inizio del processo per l’efferato omicidio di Jeremy Smith, non avrebbe mai creduto che proprio quegli undici volti di donna, ritratti in modo così insolito, sarebbero stati la chiave per risolvere il caso.
O meglio, sarebbe forse più corretto dire “quei dieci volti di donna” perché fin dall’inizio del procedimento la tesi del Procuratore Caine era stata che quello seduto a terra in basso a destra fosse in realtà un ragazzo. Si sarebbe trattato proprio del povero Jeremy in abiti ed acconciatura femminili all’età di circa dieci anni.
Esaminando il cadavere, il Medico Legale aveva stimato l’età della vittima intorno ai vent’anni, ma la somiglianza dei tratti del suo volto con quelli del ragazzo nella fotografia era ancora davvero strabiliante. A suscitare i sospetti di Caine era stata poi anche quella particolare posa assunta per lo scatto. Il gomito appoggiato in modo così disinvolto sulle ginocchia della signora seduta al centro non sembrava certo proprio di una giovanetta.
Tanto gli era bastato per basare le indagini sull’identificazione dei volti di quelle donne.
La fotografia era stata trovata nel doppio fondo di una valigia all’interno della squallida camera che Jeremy aveva preso in affitto in città insieme ad una certa Cecil Tailor qualche mese prima. Questo era quanto aveva testimoniato la portinaia dello stabile, che affermò anche di riconoscere con sicurezza Cecil da giovane nell’immagine della ragazza seduta a terra in basso a sinistra.
L’anziana donna sostenne inoltre che il giorno stesso in cui Jeremy fu trovato riverso sul pavimento in una pozza di sangue, gli occhi sbarrati e la gola lacerata da uno squarcio profondo, un’altra donna era salita in camera da lui ed aveva discusso a lungo ed animatamente con l’uomo. L’aveva anche vista bene in viso quando era uscita in fretta dall’ingresso principale dell’edificio e credeva di riconoscerla senza ombra di dubbio nella ragazza seduta vicino alla donna al centro della fotografia.
La sera stessa, rientrando come ogni giorno dal suo servizio presso una facoltosa famiglia della zona, non appena entrata in casa Cecil aveva lanciato un unico, eterno, altissimo grido ed era fuggita via correndo giù per le scale, per poi dileguarsi definitivamente dietro l’angolo in fondo alla strada, a quell’ora ormai già completamente avvolta dal buio.
Non fu difficile invece rintracciare Judith Brown, la donna che aveva scritto la lettera di presentazione servita a Cecil per ottenere il lavoro. Chiamata a testimoniare in tribunale nonostante la paresi facciale che le aveva sfigurato il volto e le rendeva il parlare lento e difficoltoso, Judith ammise di aver avuto Cecil al proprio servizio negli ultimi anni.
Negò però risolutamente di aver mai avuto nulla a che fare con quel Jeremy e tanto meno di riconoscere se stessa e la propria figlia Amanda nelle persone ritratte al centro della fotografia.
Infine, pur sofferente fin dall’infanzia di ricorrenti attacchi isterici, che apparentemente non le impedivano però di condurre una vita normale, Amanda fu chiamata a sostenere il proprio interrogatorio come unica imputata per l’omicidio di Jeremy. In risposta alle incalzanti contestazioni del Procuratore si limitò a pronunciare solo qualche incomprensibile parola.
Per la maggior parte del tempo rimase chiusa in un silenzio impenetrabile, continuando a fissare lo sguardo nel vuoto.
“Questa fotografia – sostenne Caine rivolgendosi alla giuria popolare nella sua arringa finale – è la prova inconfutabile della colpevolezza dell’imputata. E’innegabile infatti l’esatta corrispondenza dell’espressione smarrita che chiaramente potete ancora oggi vedere nel viso di questa donna con quella della giovane ragazza seduta nella fotografia al fianco della madre”.
“Nato da una relazione illecita – proseguì il Procuratore presentando la ricostruzione secondo lui più plausibile della vita dell’uomo – Jeremy fu adottato in tenera età da Judith Brown ed allevato come una seconda figlia insieme ad Amanda. Fin da bambina lei se ne era innamorata perdutamente e quando Jeremy se ne andò con Cecil in cerca di fortuna lei continuò a cercarlo per anni. Quel giorno, rintracciatolo nella camera in affitto, Amanda gli confessò il suo grande amore e lo pregò inutilmente di interrompere la relazione con Cecil. Fin tanto che, di fronte al deciso rifiuto opposto dell’uomo, presa da un improvviso raptus di follia barbaramente lo uccise ”.
“Ed osservate ora attentamente i volti delle altre sette donne ritratte nella fotografia” concluse Caine aumentando il tono e l’intensità della sua requisitoria. “Vi apparirà in modo lampante la sordida natura dell’ambiente in cui questa squallida storia ha avuto inizio. Guardatele bene in viso. Una ad una. Si tratta in modo evidente di prostitute che assicuravano i loro bassi servigi in una casa di tolleranza tenuta proprio da Judith Brown. Fu in un luogo malsano e perverso come quello di un bordello che il povero Jeremy fu costretto a crescere.
Fu nell’atmosfera pervasa di desiderio carnale testimoniata dai volti di queste donne che maturò la turpe passione di Amanda e il suo tragico desiderio di vendetta”.
Lentamente, i giurati popolari si passarono la fotografia di mano in mano.
Poi, in silenzio, si ritirarono in camera di consiglio per emettere il verdetto.
La carta ci lega più della corda
Ti sei fermata appoggiandoti alla parete. Scale. Solo scale sopra di te e sotto di te. Io ti guardo, dal basso come un suddito guarda la regina.
Togli il mio volto dalle foto, taglialo con una forbice dalla lama lucida e certa dove tu possa specchiare i tuoi occhi e le tue brame. Mettimi via. Prendi le mie cose, radunale come fosse un rituale, nascondile in una scatola che non desti sospetti e poi riponimi in una soffitta polverosa – tra i fantasmi dai conti in sospeso con la terra- o in una cantina umida e scura insieme ai topi. Fammi ammuffire, che io prenda l’odore della carta marcia, delle mura sudate, di una vita guasta. Tu setaccia la casa, fai il censimento delle cose, che niente ti sfugga… la svista di adesso sarà la malinconia di domani. Non dimenticarti di nulla, non fare ostaggi, fai saltare i ponti. E non tornare indietro. Mai.
Lo sapevo. Come un rubinetto che perde una goccia insistente e feroce e che toglie il sonno, così da mesi mi agitava dentro una sensazione stridente e fastidiosa. In fondo i presentimenti sono la verità, la ragione e l’abitudine ci portano fuori strada. Nell’ordinario. Invece le cose non sono mai dove noi pensiamo di averle riposte. Le cose accadono per rompere gli equilibri che noi crediamo di governare.
Quella sera a teatro ho capito quale era il dramma che il destino stava mettendo in scena per me. Nell’intervallo, mentre io parlavo intrattenendo relazioni e imbastendo affari, lui si è avvicinato e vi siete guardati un breve istante. Tu eri alle mie spalle, in disparte, e non me ne sarei accorto se il primo ministro non avesse espresso il desiderio di un calice di champagne ed io non mi fossi offerto di prenderlo per me e per lui. Girandomi vi ho visto. Lo sguardo della passione, quello sguardo che incenerisce l’aria. Lui si è avvicinato e ti ha sfiorato la mano quasi accidentalmente infilandoti un piccolo biglietto tra le dita. Ho capito tutto, ho rimesso al loro posto i segni e le circostanze che parevano stonate. Non mi hai mai guardato in quel modo.
Poi sono stati mesi di bugie, sotterfugi. La mia ira, la tua lontananza. Ho provato ogni cosa, dalla comprensione alla ferocia. Tu l’amavi, amavi lui- il poeta. Mi tornarono a mente le parole di mia madre che dopo averti conosciuta mi disse: “Questa donna ti farà soffrire, ha quella bellezza infausta che si nutre solo di se stessa.” Io avevo fatto il possibile, soddisfatto ogni tuo capriccio, assecondato ogni richiesta. Ma tu amavi lui, le sue parole, le sue carte scritte fitte. Lui che non aveva neanche un decimo di quello che avevo io, lui che possedeva solo parole. Ho capito che non vi è veleno più efficace, le parole sono serpenti incantatori.
Sono sfinito, ti perdo e sono sfinito. L’ennesima lite rientrando a casa. Sulle scale ti ho chiesto se lo vedevi ancora. Tu ti sei fermata, appoggiata al muro e hai guardato fuori dalla finestra senza parlare. Ironia della sorte avevo nella tasca del cappotto una macchina fotografica, venivamo da una festa. Ti ho scattato una foto. Allora ti sei voltata verso me con un’espressione tra lo stupore e il fastidio.
Mi sono girato sui miei passi. Me ne sono andato. Da quel giorno non sono rientrato in casa né ti ho più rivista. Ho lasciato la città, ora vivo in campagna. Ho resistito ad ogni tentazione di cercarti o di sapere.
Tengo la tua foto nella tasca. È il mio monito, il mio veto. L’istantanea di quel dolore senza ritorno.
La luna nel calice
Mirna attraversava quello slargo ovale dove quattro cavalli pietrosi parevano solcare il piccolo mare racchiuso nella fontana, ci si bagnava i piedi con una pezzuola ricamata, piedi stanchi e polverosi, piedi che venivano dal mare; era sempre sera quando la porta si apriva e lei poteva uscire… più spesso succedeva a tarda notte quando la luna si specchiava tra le zampe alzate dei quattro destrieri. Avrebbe voluto cavalcarli per un poco e sentirsi sollevare verso l’alto al trotto, verso luoghi ignoti dove non era costretta a sentire l’odore appiccicoso della minestra, della naftalina e il rumore ritmico dei passi incerti sul parquet. Mirna si stringeva nel suo cappotto di lana, i capelli corvini e il mento alzato a quella Dimora degli dei a cui lei spesso dava il fianco o un rapido fugace sguardo: aveva l’età di sua nonna quel albergo, sessanta anni più o meno, ma lei sua nonna non l’aveva mai conosciuta e nemmeno suo nonno… erano morti, ma non sapeva come, e nessuno si era mai dilungato a spiegarglielo. Dall’hotel non aveva mai sentito provenire l’odore di minestrina. La facciata stile liberty regalava a lei una prospettiva di ombre mai conclusa, sempre nuova e spesso sinistra ma comunque familiare. Spesso, quando usciva, si concedeva il lusso di mangiarsi un gelato al chiosco di Aldo che cominciava la stagione ad aprile e, spesso, a fine ottobre era ancora aperto. Aldo era sempre gentile con quella ragazza silenziosa che faceva l’infermiera presso un ospizio per vecchi e che sembrava così tanto misteriosamente bella: diventava impacciato e puntualmente gli cadeva una pallina di gelato ovunque ma non nel cono, lei rideva e guardava su verso la Luna….verso la Dimora degli Dei. Era da tempo che dalla siepe diradata si sporgeva una mano e sempre attorno alle dieci di sera la mano misteriosa porgeva a Mirna una chiave con un cartoncino con scritto “ti aspetto”: lei accedeva alla dimora dal retro, i suoi passi erano felpati, passi di chi è abituato a muoversi tra sonni incerti e sogni intrappolati; poi saliva le scale destinate alla servitù e, con l’aiuto di un’ombra muta e gentile accedeva alla sua stanza- diversa ogni sera. Sopra un tavolino intagliato o sul davanzale del balcone di pietra serena, vicino ai doccioni, trovava sempre un calice con la Luna nel fondo….Quando infine sfinita e frastornata si sedeva, si metteva a conversare nell’oscurità con il suo Portiere di notte, una figura alta e slanciata ormai severa: i capelli colore della Luna, occhi grigi che parevano rubati da qualche secchiello di monelli in spiaggia e anche la sua voce sapeva della brezza del mare. Ogni sera sul fondo del calice, Mirna raggiungeva con rapidi passi la sua Luna. Il Portiere di Notte era suo nonno scampato alla guerra alla fame e alla tristezza….tristezza di un destino…tristezza di non aver altro da abbracciare se non i ricordi. Essere il portiere del Grand Hotel leniva il dolore e il ricordo di quella moglie che dopo il parto se n’era andata. Non in cielo, dove tutti pensavano e come Mirna aveva sempre creduto, ma oltre l’oceano lontano, con quel giovane ufficiale americano che le aveva rapito l’anima. Il nonno era rimasto nella sua amata città salmastra ma senza riuscire più a occuparsi del mare, delle barriere di sabbia, dei bagnanti, senza saper ricordare la Luna piena della notte in cui Rosa se n’era andata via senza niente, senza di lui e senza sua figlia. Sapeva che al riparo di quelle mura il mondo era lo stesso ma diverso e poteva danzare di notte tra le ombre mirabolanti e lattiginose delle architetture lunari, vivere senza essere visto, servire il tempo e l’anima delle persone ed essere morto per molti e vivo per altri come per sua nipote Mirna che salva rifletteva il suo volto bianco sul fondo del bicchiere…I cavalli aspettarono per tutta la stagione estiva che Mirna accarezzasse loro il muso liscio di pietra, e anche la Luna si nascondeva tra le nubi dato che nessuno la osservava più. All’ospizio “Stella Maris” nessuno seppe più nulla di Mirna, tutti la cercarono vagheggiando l’idea di fughe mirabolanti e fiabesche o di una morte triste in mare. Gli occhi dell’Olimpo erano sempre accesi di notte e tra le ardenti cortine le Luna si rifugiava in un calice. Nel fondo, un volto raggiante e alabastrino.
La prima volta che ti ho vista eravamo due bambine
La prima volta che ti ho vista eravamo due bambine. Ultima dopo quattro fratelli maschi ero cresciuta selvaggia tra i campi coltivati con fatica da mio padre e il portico dove mamma si sedeva per prendere la luce ed eseguire al meglio i piccoli lavori di cucito e rammendo per cui era conosciuta in tutto il paese. Prima di sposarsi lavorava come aiuto sarta in un negozio in città con le vetrine grandi e gli interni di velluto. Ogni tanto ci andavamo-nei giorni speciali dove uscire significava caramelle colorate dai barattoli di vetro del negozio della Gina – come in pellegrinaggio, mamma specchiava il suo volto sempre troppo magro e pallido nella vetrina dove troneggiavano manichini dall’espressione severa come vestiti per andare ad un ballo o ad un ricevimento. Credo rimpiangesse la sua vita di un tempo, la gente e le chiacchiere, il movimento delle strade e lo scoppiettio delle macchine: in campagna vivevamo soli, raramente qualcuno veniva a trovarci se non per gli affari di mio padre, per il grano o per l’olio, per la legna o per i pomodori. Ero cresciuta nelle cose semplici, senza vezzi, tra fratelli maschi dai gesti svelti e ruvidi di cui spesso mi ritrovavo i vestiti che scivolavano di figlio in figlio fino a che l’usura non permetteva più questo passaggio di consegne familiari. L’unico privilegio che avevo era che mamma lasciava che solo io mi avvicinassi ai suoi libri custoditi gelosamente dentro un baule chiuso a chiave. Erano stati una specie di eredità di una qualche zia di Roma, attrice a quanto pare. Erano arrivati un giovedì di novembre, io me lo ricordavo appena, insieme ad una lettera con un sigillo rosso. Solo a me era concesso toccarli e tenerli tra le mani e poi-appena imparato a leggere- di perdermi tra le righe ed i mondi, tra le storie ed i nomi. Era l’unica complicità tra me e mia madre, una specie di segreto tra donne in quella casa di maschi e di fatiche. Quel primo amore di carta mi ha segnato l’intera esistenza, amore ancora più desiderato perché esclusivo, concesso solo a me.
Avevo un libro tra le mani quel giorno, “Il conte di Montecristo”. A scuola nessuno si era mai interessato particolarmente a me, ero considerata strana per quel mio essere solitaria e taciturna, poco avvezza ai giochi e agli scambi … io me ne stavo sempre in disparte persa tra le pagine come una regina tra i suoi abiti lussuosi. Tu ti sei avvicinata e mi hai chiesto cosa stavo leggendo con così tanta attenzione da non accorgermi di nulla intorno a me … delle urla nel cortile, di Primo che stava picchiando Andrea, delle bambine che lanciavano sassi giocando a campana. Ho alzato gli occhi stupita dal fatto che qualcuno potesse interessarsi a me. Le tue lentiggini, i capelli color rame e quella tua bocca rossa come una ciliegia. Mi sono sentita i tuoi occhi dentro.
E’ iniziata così. Tanto tempo fa ormai. Ti ho amata da subito come tu fossi stata un libro. Negli anni abbiamo intrecciato storie scavando una nicchia nella parete di pietra del mondo. Nessuno ha fatto caso a noi per un po’. Poi – ed era troppo tardi per scollare la rilegatura delle nostre pagine – noi non abbiamo più fatto caso a nessuno. Alle voci malevole, ai tentativi di allontanarci.
Oggi, ti aspetto. All’entrata del giardino. C’è voluto un po’ per organizzare ogni cosa. Ma noi , abituate agli intrighi della letteratura, abbiamo stemperato l’ansia di una decisione estrema con il gioco del costruire una trama perfetta in tutte le sue parti. Ci vuole un piano, ci vuole sempre un piano. Per la fuga l’amore la vendetta. Come il conte di Montecristo. Ho addosso il frac preso di nascosto dall’armadio di mio fratello, prezioso dono di matrimonio di mia madre, confezionato dalle sue abili mani. Ho tagliato i capelli, fasciato i seni con bende di cotone. Il mio corpo esile in un abito da uomo fa di me uno sbarbato giovanotto. Ti aspetto. Così daremo meno nell’occhio … del resto dove mai potrebbero andare due donne sole?
Alzo gli occhi dai miei pensieri. Ti vedo arrivare, gli stessi capelli color rame di quel giorno. Mi sorridi.
La promessa di matrimonio
Quel giorno mi aveva dato appuntamento in quel parco.
“Signorina gradirei incontrarla al Parco della Vittoria alle 14 di Martedì prossimo”
Il bigliettino tra le pagine del mio spartito, grafica da dottorino su un pezzo di carta di lino.
Lui era un lontano cugino in visita a casa nostra per un mese.
Motivi familiari. Me ne ero innamorata subito.
Avevo inanellato tremila sospiri intorno alla mia collana di perle.
Sembrava ritagliato da una di quelle riviste sui divi del cinema che portava a casa mio
padre dai suoi viaggi a Roma.
Ci siamo incontrati accanto alla quercia.
Quella che fa solletico alla statua della Ninfa amputata.
Accanto al laghetto tutto pesci incredibilmente rossi.
Lui non riusciva a sorridere. Era bianco come la Ninfa. E tremava.
Era vestito elegante. Ma le scarpe mi sembravano troppo grandi per lui.
Forse stava facendo il passo più lungo della gamba?
Io mi ero preparata davanti alla mia toilette.
Cipria di riso e rossetto rosso. Uno sputo languido nella tavoletta del mascara.
Il mio vestito di seta verde come le acque sfocate di un sogno.
Mi sentivo bella. Ho indossato il mio cappello di Parigi e sono uscita.
Mia madre sapeva della lezione di pianoforte. O faceva finta di sapere.
Alla fine questo matrimonio sarebbe convenuto ai miei.
Lui era ricco. Buona posizione. Ottime referenze.
“Cugino le mancano i suoi familiari?”
Avevo detto io dopo uno sguardo incerto e incerti gesti di imbarazzo davanti al suo
silenzio strano. “No”. E fu l’unica parola che pronunciò quel giorno.
Io ero arrabbiata. Mi aspettavo una dichiarazione.
Come quelle da cinematografo. O comunque mi aspettavo delle parole.
Non quell’imbarazzante e inutile silenzio. Il mio amore svanì. Evaporò.
Il tempo di sgualcirmi il vestito di seta nell’attesa di una sua proposta matrimoniale
seduta sul bordo di marmo della fontana.
Rimanemmo seduti così, silenziosi, un tempo interminabile, l’uno accanto all’altro.
Silenziosi come le querce intorno. Come i pesci rossi. Come la ninfa rotta.
A interrompere il nostro silenzio un signore tutto mustacchi e gote rosse.
“Scusatemi signori. Sono Attilio Gabriellini. Sono un fotografo. Ho il mio studio proprio
qui davanti all’uscita del parco. Vi posso chiedere la cortesia di posare per me?”
“Si” La mia risposta secca. Stridula da apnea.
Ci siamo messi come ci indicò il fotografo.
Io ho avuto solo il vezzo di puntare la punta del piede. Ero abituata a posare.
Mio fratello era un pittore. Avevo interpretato tante madonne per lui.
Io e mio cugino non ci siamo mai guardati.
Il fotografo sistema la sua dagherrotipo a soffietto e prima di infilare la testa sotto al
panno dice: “Gentili signori perché così seri? Non morde la macchina.”
Poi mio cugino è partito. Tornato a Torino. Credo dopo pochi giorni.
Io ero così delusa che non gli rivolsi più parola e comunque lo evitai per il resto della sua
permanenza a casa nostra. Gli anni sono passati.
Io mi sono sposata. Ho avuto tre figli. Non ho più pensato a lui.
Solo oggi ho trovato questa foto. Dietro la dedica. “22 Marzo 19…(data non leggibile)
alla sig.na Bianca e al sig. Umberto
Alla coppia più bella di quest’Italia in primavera,
Con l’augurio di Felicità e Amore Eterni,
Attilio Gabriellini”
Li stupirebbe molto sapere
“Li stupirebbe molto sapere/ che già da parecchio tempo/ il caso giocava con loro.
Non ancora pronto del tutto/ a mutarsi per loro in destino/ li avvicinava, li allontanava…”
W. Szymborska
Non so qual è il tuo nome. Ti chiamerò Manuel.
Ti ho seguito fin qui per guardarti da vicino e trasformarti in una statua di sale.
Io non ti conosco, eppure sei nella mia vita da sempre.
Come un piccolo principe nel regno dei destini possibili.
Lì sulla darsena, vestito di bianco, somigli a un cigno selvatico che sta per spiccare il volo.
Che prepara le ali al viaggio della migrazione.
Ti vedo già, disteso nella stiva della nave, ad ascoltare il rumore delle onde,
così carico di dolci promesse.
Ti lascerai cullare dalla musica delle illusioni.
Io non ti conosco, perché non posso conoscerti.
Le nostre vite si sono appena sfiorate tra le calli di questa città.
Sono venuta qui per ascoltare come te la musica dell’indefinito.
Ma per me è diverso, io non posso imbarcarmi.
Per me l’orizzonte ha altri programmi.
Il mare oggi è un petalo blu. Una carezza di velluto.
Tra qualche ora la tua nave salperà.
Non ti saresti mai immaginato di attraversare l’Oceano con una divisa indosso.
Ma per te era l’unico modo per andare via.
Sono venuta qui perché provo a trattenerti per l’ultima volta.
Stringo la tua lettera tra le dita.
Poche e decise parole scritte con l’inchiostro blu: mi ricorderò di te.
Sono qui, ma non ho il coraggio di salutarti.
Non importa, perché ti farò prigioniero nei cristalli d’argento.
Soltanto io potrò liberarti dall’incantesimo.
Allora la tua figura sarà una delicata impronta di luce nella mia memoria.
Notre Dame
L’aveva conosciuta un giorno d’inverno in un cafè in centro a Parigi. Lei lavorava lì come cameriera. Lui era con Josephine, sua moglie, in luna di miele. Erano entrati abbracciati per riscaldarsi dal freddo e dalla pioggia che batteva forte, che non lasciava scampo, che non dava tregua. Luis e Josephine si erano sposati in una chiesetta di campagna, pochi invitati, fiori di campo e – lei – era la sposa che indossava l’abito portato un tempo da sua madre.
Lui in frac, capelli ricci biondi, incarnato chiaro, occhi grandi, scuri, pieni di mistero.
Erano arrivati a Parigi da pochi giorni e di quel miele denso odorava la loro stanza d’albergo affacciata su Nostra Signora. Persi l’uno nell’altra per ore, Luis e Josephine non avevano fatto altro che fare l’amore, lui la teneva stretta a sé nel grande talamo dalle lenzuola di seta chiara, lui la guardava dormire, lui dolcemente le metteva fra i capelli biondi petali di rosa rossi come la sua passione, come il suo amore sincero. Fino a quel momento Luis era stato innamorato di Josephine, la donna con la quale immaginava dei figli e un futuro.
Al bancone un cameriere li vide entrare infreddoliti e zuppi di pioggia, si avvicinò e disse loro che in fondo al corridoio, si trovavano le toilettes dove avrebbero potuto sistemarsi. Louis raggiunse il bagno degli uomini, tolse il suo cappotto scuro appoggiandolo sull’angolo del lavandino, si sbottonò la camicia bianca, si sistemò i capelli bagnati, si asciugò come poteva, poi ripercorse a ritroso il lungo corridoio in penombra che lo avrebbe riportato dal suo amore. Un’esile figura di donna sopraggiunse a passo lento verso di lui, teneva fra le mani un vassoio di biscotti alle spezie e al cioccolato e una teiera di porcellana bianca con due tazze da the. Quando furono vicini, Louis si appoggiò alla parete per lasciarla passare,
Lei accennando un sorriso, lo guardò dritto negli occhi scuri con occhi scuri, profondi come la notte. Luis rimase immobile a guardare quella donna minuta che piano lo oltrepassava e si allontanava per raggiungere dei clienti dall’altra parte del locale. Una scia di profumo era rimasta intrappolata nell’aria entrando furiosamente nelle narici di Louis e poi sinuosamente nella sua mente per ridiscendere giù oltre lo stomaco pervadendo i suoi sensi per perdersi poi dentro la carta liberty di quella parete contro cui lui aveva appoggiato le mani per sostenersi. Tornò al tavolo in cui Josephine lo attendeva, sorseggiando il suo the. Louis continuava a cercare nella penombra di quel lungo corridoio quella figura esile che tanto lo aveva turbato e con una scusa si allontanò da lei. Aspettò che quella figura tornasse indietro, aspettò ancora e ancora, si sedette a terra mettendosi le mani fra i capelli, arrotolandosi i ricci furiosi fra le dita in un gesto ripetitivo e nevrotico carico di impazienza e di desiderio. La figura sopraggiunse con un carico di vassoi e di bicchieri da lavare, di cui il tintinnio scandiva il passo lento ed elegante. Quando la vide Louis si sollevò da terra quasi strisciando sulla parete.
Lei era li, davanti a lui. Appoggiò i vassoi in terra e abbassandosi il suo viso sostò all’altezza dell’ombelico di Louis e del suo sesso eccitato. Lui dall’alto le guardò la nuca, i capelli neri come l’ebano, s’insinuò con lo sguardo nella fessura del vestito che lasciava intravedere il suo piccolo seno appuntito. Lei si rialzò, lo guardò dritto negli occhi e poi, in silenzio indugiò con lo sguardo sulle sue labbra carnose ma pallide, sul suo collo, era sul suo respiro ansimante. Louis rimase immobile, le gambe tremanti. Con una mano lei gli accarezzò i capelli, la bocca il collo, lui nel desiderio furioso di portarla a sé mise le sue mani intorno ai suoi fianchi magri. Sentì il calore di quella donna confondersi col suo, il desiderio salire fra le gambe mentre i due corpi a stento riuscivano a resistere al desiderio di fondersi.
La seta del vestito nero di lei strisciava contro i suoi pantaloni, le mani iniziavano a percorrersi. Louis le prese la testa fra le mani e la baciò, mordendole le labbra.
Lei si allontanò, tremante si mise una mano fra le labbra, si abbassò a terra e raccolse il suo vassoio. Gli sussurrò il suo nome e scomparve velocemente in mezzo ai tavoli del cafè.
Louis e Josephine lasciarono il cafè. Pochi giorni dopo tornarono in Inghilterra. L’inverno con i suoi cieli plumbei lasciò presto il posto alla primavera e poi all’estate. Louis ogni notte pensava a lei, a quella donna minuta e silenziosa, pensava a quanto avrebbe voluto toglierle quelle scarpe e quelle calze, avrebbe voluto rompergliele.
Pensava a come l’avrebbe presa quella donna dal sorriso avaro, dalle mani scarne, pensava a come le avrebbe accarezzato il volto, a come le avrebbe toccato i capelli, a come le avrebbe sfilato quel vestito e poi pensava ossessivamente alla sua lingua che aveva assaggiato per pochi istanti al suo sapore che ancora sentiva fra le labbra aride e assetate.
Era l’alba quando in silenzio, corse veloce come un pazzo alla stazione. Salì sul treno per Parigi. Aveva trovato posto vicino a una vecchietta dagli occhi di vetro.
Madido di sudore Louis si era tolto i capelli dalla fronte e aveva appoggiato la testa all’indietro in cerca di resa, di silenzio, di una pausa dai suoi tanti pensieri. Louis si alzò per raggiungere il finestrino, sentiva di aver bisogno di aprirlo per respirare; le gambe della vecchietta si irrigidirono all’altezza delle sue ginocchia, avvertiva il suo diniego per quell’invadenza, per quel contatto forzato, la guardò con i suoi occhi scuri e grandi, spalancati e fermi, come per chiederle compassione: la signora abbassando la testa riprese a fare il suo ricamo silenzioso…
Louis cadde pesantemente sul sedile dal quale trasudavano gli odori di tante persone che vi si erano sedute. Luis abbandonò la sua testa all’indietro, aveva bisogno di dormire.
Chiuse gli occhi ma il pensiero di lei tornò furiosamente alla sua mente come un lampo fugace ma nitido che scardina la porta di una piccola chiesa di campagna.
Vedeva il suo volto pallido, i suoi occhi scuri, la sua bocca carnosa il suo corpo esile, il suo seno piccolo appena intravisto, intrappolato in un vestito di seta nera, vedeva i suoi capelli lunghi, lisci, neri come la notte, profumati di lavanda, e poi le sue gambe magre nascoste sotto calze velate e le sue scarpe rosse piccole sporcate dal fango dei viali piovigginosi della città. Isabel questo era il suo nome, un nome che a stento riusciva a pronunciare, un nome che sapeva di bosco, di alberi, di rami spogliati dall’inverno, simili alle vene spesse che solcavano le sue braccia magre. La sua Isabel, la sua dannazione, il dolore in mezzo al costato, il desiderio fra le gambe, che non mutava nonostante le scelte. Isabel solo e soltanto Isabel. Il fischio del treno alla stazione di Parigi svegliò Louis. Voci di gente che spingeva per scendere si confondevano nei vagoni. La signora dagli occhi di vetro che sedeva accanto a lui non c’era più, ma Louis percepiva ancora l’odore di lacca dei suoi capelli e la scia lasciata dal suo cappotto di lana infeltrito, intriso di naftalina e colonia. Louis scese in fretta dal treno. Era inverno, era freddo, percorse a piedi un lungo tratto di strada e raggiunse il cafè. Rimase immobile li fuori ad aspettare, poi decise di entrare. Si sedette e attese Isabel. Aveva lasciato Londra col suo cielo grigio e salutato con un bacio Josephine . Isabel sopraggiunse con un vassoio di biscotti alle spezie e al cioccolato, aveva labbra rosse come il sangue e capelli raccolti in uno chignon.
Rue de Saint Honoré, 53
23 anni, Marie, posa felice nelle fotografie del viaggio di nozze, imitando le pose sbarazzine delle modelle che ha visto su “Harper bazar”. Il 1961 è un anno senza pensieri, Francois l’ha baciata dopo averle chiesto la mano, in una fulminea successione di eventi. Marie in cuor suo attendeva trepidante quel momento, ma non immaginava che tutto ciò sarebbe accaduto in così breve tempo. I preparativi per le nozze, la sontuosa festa matrimoniale con 97 invitati (se si esclude il piccolo Jean-luc, figlio di sua sorella Arianne che al pranzo nuziale, vista la tenerissima età di 11 mesi, non aveva avuto una sedia e un segnaposto col suo nome, come tutti gli altri) e la successiva partenza per la Provenza. Lasciare Parigi per il Sud, trasferirsi in quel luogo nuovo per buona parte dell’anno perche Francois possa seguire da vicino i suoi possedimenti terrieri e il lavoro di agronomi e di fattori, come influirà sul suo fragile umore? Marie se lo chiede. Lasciare la capitale con il flusso ininterrotto di persone che anima i boulevard, per le lunghe distese fiorite e la sensazione di vuoto, dolce e amaro vuoto. Solo i profumi riempiono quella vastità. La lavanda emana il più malinconico degli odori, il rosmarino il più pungente, la salvia il più doloroso. Ma l’inverno è assenza di olfatto, rinnovata quiete e attesa. Pregherà Francois di riportarla presto nella loro abitazione di rue Saint Honoré 53. Riporrà i suoi sottili abiti primaverili nell’armadio a muro della camera da letto e dall’alto della finestra del terzo piano osserverà la sua amata città.
“La parola è un virus venuto dallo spazio”. W.S.Burroughs
Sei in pericolo
Stanotte ho rifatto quel maledetto sogno. Io lo ricordo bene quel giorno. Siamo in posa. Papà è sull’altro lato della strada, scatta la fotografia del tuo undicesimo compleanno. Carlo e Marianna fissano un luogo indefinito oltre la siepe, mamma ti aggiusta il cappello e le zie intimidite quasi fuggono all’obiettivo. Siamo tutti in fila, pronti. – Pronti – dice papà – guardate l’obiettivo, ora scatto, scatto – Inizia una specie di conto alla rovescia, ad ogni numero Marianna recede di un passo, tre, poi due, uno. La vedo allontanarsi, alle sue spalle c’è il muro della nostra casa di famiglia, la vecchia casa dove ora vivi tu. La vedo allontanarsi e un brivido mi corre lungo la schiena. Quando si allontana e non la vedo, quello è il momento che ho più paura. Il momento peggiore, perché vuol dire che sta per farmi qualcosa, come quella volta che si è nascosta per ore nella mia camera, e poi mi ha sorpreso da sola e chiuso nell’armadio, con la chiave. Ti giuro, non ho detto nemmeno una parola alla mamma. Non ho detto niente. Ma non mi hai creduto, tu non mi hai mai creduto, neanche Marianna mi ha creduto. Lasciami dire, le parole mi affiorano alle labbra come una febbre oggi, è il giorno della verità. Oggi che compio l’ultimo dei miei anniversari, a quattro anni mentre gioco in fondo al pozzo aspettando che tu venga a prendermi e ritirarci in casa prima del buio della sera. Ma stavolta non sei venuta, e le parole mi salgono come le lacrime a sporcare questa pagina. Forse hai ragione tu, nessuno mi vuole bene. Forse hai ragione, è giusto che io debba scomparire, rimanere qui, al buio.
Mi sveglio all’improvviso. Mi guardi, mi stai fissando con quell’aria cattiva che hai quando vuoi farmi male, come nella foto: mi dici: -nessuno ti vuole bene, sarebbe meglio se morissi.. – mi tieni strette la braccia e io non posso muovermi. C’è anche Marianna, ha una smorfia fissa al posto del sorriso, mi tenete stretta, mi trascinate via dalla stanza, via dalla casa. Sto al gioco, non dico niente, ti arrabbi sempre quando urlo. E allora ti seguo lentamente, in silenzio, ho una lacrima piccola piccola che mi scende pigra sulla guancia. Dove mi portate? Dove? Poi mi sollevate e mi scaraventate in fondo, in un posto stretto e buio, e non sento più niente, ed ho questo dolore forte al petto, vicino al cuore, ma non ci faccio caso. E ho questa specie di lettera tra le tue mani, tre parole soltanto, ma riconosco soltanto le vocali, tre ‘i’ e le ‘o’ che sono tutte rotonde, per il resto non so leggere, non so cosa c’è scritto.
Ti chiamo per nome, ma stavolta fai finta di non sentirmi, non vuoi sentirmi. Allora chiamo il nome di Carlo, perché so che lui mi verrà a prendere. Lui viene sempre a prendermi. Sono sicura che verrà. Sono qui, di fronte a casa, tra il recinto e il vialetto. solo un po’ più in basso, sotto la superficie della terra, se accosti l’orecchio all’erba puoi ancora sentirmi.
Dicono che i morti sanno tutta la verità, che la verità appartiene alla morte, questo dicono. Tu capisci quello che dico, vero? Si, ogni volta che vieni a prendere l’acqua, nel pozzo.
Oggi, dopo tanto tempo, sono tornata a casa. Hai spostato tutti i mobili, e anche i tuoi capelli sono diversi e mi sembri più alta. Lì per lì non ci ho fatto molto caso, ma avevi indosso un vestito elegante che non ti avevo mai visto e sembravi una gran signora con i capelli corti e un grosso anello all’anulare sinistro. Deve essere nuovo, un regalo, non fai altro che guardarlo, ti s’illuminano gli occhi. Sono tornata per dirti che è venuto Carlo, mi aveva cercato tanto, mi ha trovato finalmente. L’ho supplicato di non dire nulla alla mamma, sono sicura che non dirà niente. Ha fatto croce sul cuore. Mi ascolti? Nessuno dirà niente alla mamma. Ma tu non mi hai sentito nemmeno stavolta. Non mi hai risposto.
Nemmeno una parola
Si vive di tremore
Era giugno, nell’aria l’odore sembrava di biscotti e di miele ma era quello dei tigli che festeggiavano l’estate, mi ero ammalato ed i miei genitori mi avevano mandato per la mia convalescenza dagli zii, non avevano figli e avrebbero avuto più tempo per me. Lì non sarei stato l’ultimo di quattro fratelli ma l’unico. Cioè il principe che sognavo di essere. Nella loro casa tutto aveva un ordine: si faceva colazione con una tovaglietta ricamata, ci si lavava le mani con un sapone profumato prima di andare a tavola, la sera c’erano i racconti e le preghiere prima di dormire. Non era tutto confuso e mescolato come con mia madre con i suoi ritagli di abiti da cucire fin dentro la cucina e la crostata fatta in casa invece dei biscotti nelle scatole di latta con sopra disegnati bambini eleganti.
Ogni volta che gli zii o qualcuno veniva a trovarci io speravo che mi portasse via da quella casa, in un altro posto dove c’era la vita vera cioè quella per uno come me cioè più grande della sua età.
Mi è poi rimasta, come una specie di rifiuto della vita reale, quella voglia di un altro luogo dove sarei stato meglio.
Questa foto è stata fatta il giorno del mio ritorno a casa. Non volevo tornare e piangevo. Ero nello studio del fotografo e quel dondolo non era certo mio perché se fossi stato più in confidenza l’avrei abbracciato. Per la prima volta provavo una tristezza e vergogna insieme o meglio il disordine dei sensi di colpa verso i miei genitori per quel tradimento che era stata la mia felicità con gli zii. Da allora mi ha sempre accompagnato l’idea che se fossi stato felice ci sarebbe stata da qualche parte una punizione per me. Sì ho cominciato a temere la felicità ma anche a desiderarla con tutte le mie forze, per riprovare quella sensazione di pienezza che mi aveva rapito. Sono tornato a casa ammalato di questa nuova passione e ne ho aspettato, cercato sempre il ritorno con la forza di un imprinting che mi portava oltre.
Oltre quella che sembra l’unica realtà, verso le possibilità e le visioni dei ricordi e dei sogni.
Si vive con tremore ma si può essere felici.
Storia di Clara
«Ma è alle 11,02 minuti che nella città si ode il suono acuto delle sirene, il segnale minaccioso dell’attacco aereo. Molti romani che pure hanno notizia dei tremendi bombardamenti sulle altre città italiane non se ne preoccupano: l’Urbe, la “città santa” non può essere attaccata dal cielo, Roma è patrimonio dell’umanità, a Roma c’è il Papa, anche gli alleati lo sanno. Che Roma sia inviolabile lo crede l’uomo della strada ma lo credono anche i gerarchi e i generali»
Da Storia e memoria – Collana Ediesse
Lunedì 19 luglio 1943
Fa un caldo asfissiante tra i palazzoni di via dei marsi e Clara a quel caldo non si è ancora abituata. È qui da tre anni, ma al caldo non ci si è abituata, come non si è abituata a quella parlata aperta e sempre un po’ sguaiata, che all’inizio non riusciva nemmeno a capire, a quell’andirivieni di treni proprio a ridosso del cortile e a quell’aria sempre polverosa, né si è abituata alla solennità della messa domenicale, nella parrocchia del quartiere, la chiesa dell’Immacolata, che lei odiava fin quando dal viale ne intravedeva il campanile. Ma la Signora ci teneva tanto a quel rito domenicale, si faceva fare i capelli dalla portiera che in gioventù aveva lavorato in un salone a Milano, e indossava il vestito elegante e tanto sembrava, che la vicinanza col buon Dio, la facesse sentisse più donna.
L’aria calda soffocante le s’infila nei polmoni stamattina, e fare i ‘servizi’ è quasi un’impresa; la maglia le si appiccica addosso, e sente il sudore inumidirgli le gambe; sarebbe stato lieto Martino di vederla così accaldata, l’avrebbe presa all’istante nel salotto buono della Signora, appena lambito dalla penombra delle pesanti tende rosate di taffetà, l’avrebbe sdraiata supina sul tavolo basso tra i due divani, sparigliando il servizio da tè e magari rompendo una tazzina, mentre avidamente le carezzava i fianchi, la pancia e le mordeva un seno, il suo preferito.
Martino, ah Martino! Moglie e due figli, innamorato di questa ragazzina venuta dal nord, tanto da averci perso la testa, ma no la moglie non la lasciava, non l’avrebbe mai lasciata, e che stupida lei a credere ogni volta alle sue scemenze sull’amore, alle promesse non mantenute, alle suppliche riparatrici, ogni volta che mancava in qualcosa. E Martino, mancava quasi in tutto, tranne nella passione, che quella cosa lì ce l’aveva nel sangue, e nonostante tutto anche Clara non poteva fare a meno di lui, lo sentiva suo, anche sposato con un’altra donna.
Sogna la giovane Clara, dentro quei giorni tutti uguali, con tutte quelle idee che le fanno confusione nella testa, che la fanno sentire scema, e che le dipingono un volto d’incanto, mentre si specchia atteggiandosi a donna fatta, sul vetro della finestra; il vetro sempre lustro, che ogni giorno pulisce quasi ossessivamente, approfittando per gettare l’occhio alle finestre del palazzo di fronte.
Di là dalla strada, la scuola. Ci hanno messo un bel cartello nuovo sul portone d’ingresso: Casa d’infanzia Maria Montessori e ci stanno i bambini poveri, per tenerli lontano dalla guerra. In questa scuola i bambini possono alzarsi, camminare, sedersi a terra, parlare tra di loro durante la lezione.
Clara li guarda ogni giorno, perché lì dentro nessun giorno è uguale ad un altro e tutti sembrano felici e un po’ le morde l’invidia perché a scuola lei non c’era potuta andare. Li guarda ogni giorno i bambini entrare nelle classi, sedersi sui banchi, disposti a cerchio intorno all’aula, oppure a terra proprio al centro della stanza. Studia gli sguardi curiosi, i gesti scomposti, riesce a vedere persino le macchie sul grembiule e il fiocco mal rifatto di Giorgino, che non ha più la madre, e suo papà poveretto deve pensare lui a tutto. E poi Tore, il figlio della tabaccaia, che ha la merenda sempre avvolta in un fazzoletto rosso e si tiene il fagotto stretto tra le gambe, quasi per paura glielo possano rubare.
Davide oggi ha le scarpe nuove, la zia Adele gliele ha riportate dalla fiera domenicale di Porta Metronia, ed entrato in classe, le ha fatte vedere a tutti.
Sergio porta gli occhiali spessi che lo fanno sembrare più grande. Li mette solo a scuola, perché la mamma si è raccomandata con la maestra. Non gli piacciono gli occhiali a Sergio perché lo fanno sentire diverso, e quando scende al vicolo a giocare li toglie sennò lo canzonano tutti.
Carlo ha un grosso orologio, regalo del nonno. Non lo toglie mai. Quando scrive a volte gli si rovescia la cassa sul banco, e il metallo fa uno stridore sinistro mentre gratta sulla superficie del legno.
Ninnuzzo sta sempre in fondo, ultimo banco a destra, quello vicino alla finestra. Ha un cappello verde a quadri schiacciato sulla fronte, non lo toglie mai, né di giorno né di notte, e di notte ne ha di giri da fare – ché servono i soldi a casa –. Ninnuzzo porta i giornali con lo zio Santino e quando arriva in classe alla mattina è stanco morto. Sta ore a guardare il cielo chiaro, che gli rimbalza sul viso pallido e ogni tanto incontra lo sguardo di Clara, di rimpetto alla strada, ma non la vede, perché ha imparato a dormire con gli occhi aperti, così che alla maestra sembra un bambino come gli altri, solo un po’ distratto.
Clara li guarda ogni giorno, osserva i loro progressi nella scrittura, indovina lo sforzo dei pensieri sulla fronte un po’ corrucciata, ammira quell’innocenza luminosa, quella che lei ha perduto, la sera d’estate in cui si è concessa a Martino, e a se stessa. Perché di desiderio bruciava anche lei e alla fine non si era saputa trattenere, alle lusinghe aveva ceduto con sorprendente naturalezza, quasi avesse scritto nel sangue, più che nel destino, ciò che voleva, e come andarselo a prendere.
Il fazzoletto rosso di Tore lo ha raccolto lei, l’indomani. Il cielo era nero e c’era un vento forte che sembrava strapparle via l’anima dalle ossa e non sentiva più caldo. Tutti i bambini erano al loro posto, nel punto esatto dove li aveva lasciati, corpicini straziati, irriconoscibili. Li ha riconosciuti uno ad uno, affinché ognuno di loro avesse un nome e un cognome.
L’orologio, le scarpe e il cappello, sono stati riconsegnati ai genitori, o a chi li ha cercati.
Gli occhiali sono stati trovati con le lenti in frantumi, ma con la montatura miracolosamente intatta, che si stagliava nera, nel grigio dei calcinacci, sembrava persino resistente alla polvere.
Tic-tac. Tic-tac. Tic-tac.
L’orologio della vita scorre minuti, giorni, anni.
Una frenesia senza fine, non ci fa capire quante siano le piccole gioie che ogni giorno ci si presentano.
Tic-tac. Tic-Tac. Tic-tac.
Era da tanto che non tornavo in Piazza San Marco.
Avevo dimenticato la bellezza dei suoi spazi, la perfezione della sua architettura e la sicurezza donatami dalle sue mura senza tempo.
Mi ricordo quando il babbo mi ci portò, un giorno.
Era il mio compleanno. Era un giorno d’aprile.
Sentivo l’aria fresca che mi faceva venir la pelle d’oca, ma subito riscaldata dal sole splendente. Avevo un vestitino color acquamarina, un nastrino nero tra i capelli e delle scarpine lucidissime, fatte dal mio povero nonno.
Il babbo mi fa: Kala, guarda. Guarda quanti piccioni. Perché non dai loro da mangiare? Dai, che poi ti porto sulla gondola e arriveremo fino il mare!
Mi ricordo ancora quanto bello fosse il babbo, giovane, con la sua barba rosso fuoco e le sue mani grandi, ma gentili. Ero un po’ titubante nell’avvicinarmi a quella mandria di esseri svolazzanti,
circondata da piume e occhietti vispi.
Ma il babbo mi mise in mano un pugno di grano, mi prese sulle spalle, e ridendo come un bimbo, mi portò lì in mezzo e ci mettemmo a girare per tutta la piazza.
Ridevo. Oh sì, quanto ridevo. E urlavo!
Dicevo: Babbo, babbo! Più veloce! I piccioni se ne vanno via!
Sembrava che il tempo si fosse fermato, che quel momento di gioco e amore sarebbe durato per sempre.
Il babbo ci lasciò qualche mese dopo.
Una mina non segnalata ce lo strappò dal cuore.
La mamma non resse al dolore. Mi disse: Piccola Kala, il babbo è solo. Necessita delle mie cure.
La vidi prendere quel nefasto treno. E poi il nulla.
Ora che son madre anche io, del piccolo Manfredi, non potevo non portarlo a piazza San Marco.
Volevo che fosse felice come lo fui io quel giorno di tanti anni fa.
Anche lui, nella foto, è un po’ in disparte, spaventato dallo stormo di affamati esserini. Io son tornata ad essere quella bimba dal vestito acquamarina, a stringere in pugno il grano dorato, stretta alle braccia del babbo.
Manfredi mi corre tra le braccia: Mamma, mamma! Voglio imparare a suonare la fisarmonica!
Piccolo mio, tu potrai far tutto. E io ti sarò sempre accanto. Come le mura di questa piazza, sarò per te una fortezza.
Porta sempre con te i più piccoli ricordi, perché senza di essi, saremmo vuoti e non sapremmo quanto amore possiamo in realtà dare.
Zora e Lisa
L’angelo dei tetti di Aarau
Avevo 4 anni allora, eppure non dimenticherò mai quel giorno, il primo di primavera: da allora fummo inseparabili. Lei aveva questo corpo rotondo, quella morbidezza liscia contro cui mi adagiavo per sentirmi rassicurata. Proprio quel giorno Max ci fotografò!
Mi avevano battezzato Zora, ero stata tanto desiderata. Ero cresciuta immersa in un’atmosfera di amore totale, eppure quando passeggiavo, sentivo un vuoto che mi assaliva: qualcosa, nella mia vita, mancava. Guardavo i bambini che giocavano a rincorrere la palla. Desideravo unirmi a loro. La mamma mi tratteneva, io ero “diversa”, non potevo parlare, la mia voce era distorta somigliava ad un grottesco latrato. Per timore che io mi sentissi respinta, venivo tenuta alla larga da chiunque avrebbe potuto fraintendermi e quindi ferirmi. Passando sotto la grande Fontana della Fortuna, nella piazza di Aarau, dove abitavamo, guardavo i tipici tetti a capanna dipinti dei palazzi della città, cercando di scorgere gli angeli che riposavano dopo aver passato la notte a mettere a posto le stelle del cielo, come la mamma mi raccontava nei pomeriggi di pioggia, quando non potevamo uscire. Nelle mie preghiere, chiedevo loro di farmi trovare un’amica, qualcuno con cui poter giocare, con cui dividere la stanza, con cui essere complice. Qualcuno che mi desse una possibilità, con cui le parole non fossero necessarie. Qualcuno che non si lasciasse intimorire dalla mia “diversità”.
Avevo 4 anni allora, non dimenticherò mai quel giorno, il primo di primavera. Avevo il permesso di restare nella piazza, mentre la mamma comperava nell’emporio, a patto che non mi allontanassi. Mi parve di scorgere un angelo che dai tetti volava verso il fiume e senza pensarci lo seguii. Fu un attimo e ne fui certa: un angelo mi spinse, caddi nell’Aar e cominciai a dimenarmi chiedendo aiuto, ma quello che ne scaturì fu un verso spaventoso. Nella confusione vidi volti che mi osservavano, bloccati da quello che sentivano fuoriuscire dalla mia bocca. Picchiai la testa e non riuscii più a nuotare. Allora la vidi che si buttava in mio soccorso, determinata a salvarmi, noncurante del pericolo. Mi afferrò e in un attimo fummo a riva. Ci guardammo intensamente, lei sorrise. Ci sdraiammo bagnate e sporche l’una accanto all’altra. In un attimo fu tutto chiaro: non ci saremmo più lasciate. Arrivò la mamma spaventata, che mi abbracciò. Prese Lisa fra le braccia – questo era il suo nome – la accarezzò e la asciugò affettuosamente. Capimmo che non aveva una famiglia: andammo in orfanotrofio e chiedemmo di poter portare a casa quella bambina bionda, sorridente e morbida. Gli angeli dei tetti avevano esaudito il mio desiderio: avevo trovato un’amica che non si lasciava intimidire dai miei latrati, dal mio aspetto feroce e dalle mie orecchie a punta. La nostra vita fu ricca di bellissime avventure: Lisa divenne una scrittrice e si sposò. Molti anni dopo, quando io già la vegliavo come un angelo dei tetti, diede il mio nome alla protagonista di uno dei suoi libri.
Giovanni Giulio Erba
Occhi di seppia, di vischio e petrolio,
che incroci i miei, nell’alba del foglio,
pescami nell’oscura camera,
rinascimi, dall’acido amniotico.
Conosco, come tu hai perduto,
l’incendio del bosco d’autunno,
vampa vermiglia di ogni foglia,
e vena cava di ogni parola.
In una pupilla mi brilla Maria
luce, nell’altra, di un figlio mai nato,
sotto il bottone un lapis segreto,
sfoggio un presagio annodato al colletto.
Tre le righe lunghe di questa giacchetta
La libertà, prima della trincea.
Aria era un tratto: da casa alla messa,
aria, quel forno che il pane cuoceva.
Aria era un’ora, il giovedì, alla sera.
L’ultimo ballo, e poi fui chiamato
con il fucile alla mano destra
stretta, nell’altra, incompiuta promessa,
d’amore che mai uscì dalla carta,
da quando, garzone, non vidi più l’alba
da quando mai più lei mi disse – poeta!-
da quando piombai nella guerra cruenta
Il corpo a corpo con quei fratelli
sentire il pulsare del cuore dei vermi
caverna vuota, al posto del petto
l’aurora era nera del sogno divelto
Ferme, le ore, in attesa del fischio
puzza di morte nell’aria di vischio
che ci saldava all’idea del finire,
corpi su corpi a ingrossare le file
ché già eravamo cadaveri in vita
solo al saper che la madre soffriva
Stretto al richiamo di mamma terra
scrissi di me: Giovanni Giulio Erba
Scrissi sui sassi, col sasso alla mano
non per portar la mia storia lontano
Incisi il mio cuore su pietra soltanto
perché era cuscino di bimbo nel pianto
perché quel granello di terra remoto
fu l’ultimo appiglio del milite ignoto,
sorpreso a dire la pace in quel gesto,
additato debole, votato al tradimento
A imporre il silenzio, un cappio sul collo,
un albero fu ad avviarmi al decollo
uscì, dalla bocca un succo di rovo…
E tu mi dirai, se fu sangue morto
O incandescenza d’inchiostro.
Tranne lo sguardo
Di questa qui adesso non è rimasto mica più niente. Tranne lo sguardo.
Figlia bastarda di un uomo che non ho mai visto, ma neanche conosciuto di nome. Ho fatto presto a stancarmi di chiederlo a mia mamma, per me non lo sapeva nemmeno lei e comunque stava zitta. Muta. Era giovane quando è successo, forse la mia età in quella foto. E per non sapere dove andare ha chiesto riparo a sua sorella maggiore, sposata da un pezzo ma senza figli. Sposata bene, con uno ricco, proprietario di una piccola fabbrica di liquori. Una casa grande, enorme, costruita sotto la fabbrica, con l’odore dei distillati che occupava tutta l’aria. Sotto i rumori dei macchinari dell’imbottigliamento, vetri e ferri che sbattono. Sopra marmo su stanze enormi, dai pavimenti lisci come seta, una cucina enorme, un grande orto con gli alberi da frutto. Casa troppo grande per le quattro persone che eravamo, tante stanze che si aprono su un corridoio lunghissimo. Passi e voci che rimbombano e fanno eco, su uno spazio che anche provando a riempirlo è sempre troppo vuoto. Non mi ricordo quando arriviamo, dovevo essere piccolissima, forse ancora nella pancia di mia mamma. Dai primi ricordi vivi sto tra le braccia di mia zia Clelia, ricordo la sua vestaglia bianca di cotone pesante, l’odore delle medicine che prende, perché io dormo nella sua stanza, non in quella di mia mamma. Prima una culla, poi un lettino bianco a fianco del suo letto, ma il più spesso vuoto, perché mia zia mi vuole a letto con lei. Dormo e mi sveglio con lei e guai a uscire troppo da quella stanza. Come un cane o un gatto o una bambola di porcellana, devo imparare a stare ferma sul cuscino, giocare tranquilla sul copriletto, mentre lei sta seduta con due tre cuscini dietro la schiena. Mia mamma dorme in una stanza piccola dall’altra parte del corridoio, lontanissima, e fa la serva di tutti, anche la mia. Esce da casa solo per fare la spesa e andare a messa una volta alla settimana, per il resto lavora sempre perché in quella casa enorme c’è solo lei a servire. Sei giovane tu, non sei mica malata come me, le dice spesso mia zia e il prezzo della sua salute sono io. Mio zio è un’ombra che solo la notte sale le scale, quando di solito già dormo, e sta in un’altra camera, per non disturbare. Solo qualche volta quando sto sveglia sento i suoi passi nel corridoio e ho paura perché lui può essere solo l’uomo nero che mi ha raccontato zia Clelia, visto che altri maschi non se ne vedono e non si sentono in questa casa. Con mia mamma sto solo quando mi comporto male tipo la disturbo quando ha mal di testa o nausea, perché in quei momenti bisogna stare zitti e anche respirare troppo forte fa danno, oppure mi ammalo. Ma non mi piace stare con mia mamma, è brutta, ha odore di sapone da bucato e le mani rotte e ruvide. Per me è una vecchia, la tratto da serva e lei con me non ha gesti d’affetto, mi porta con sé per la casa, mentre fa le faccende, perché non si ferma mai, pulisce e pulisce in continuazione. E’ lì che scappo e corro e vedo il sole, sento l’aria fresca che entra dalle finestre aperte per far asciugare i pavimenti appena lavati. E’ in quei momenti che scendo nell’orto, tocco l’erba, le piante, mi arrampico sugli alberi per mangiare la frutta, anche se subito dopo so che mia mamma mi metterà nella vasca e comincerà a lavarmi con una spugna ruvida per togliermi ogni odore di fuori e i microbi, che sono l’ossessione di tutte e due le sorelle, e guai se rovino i vestiti. Fin da piccola ho abiti meravigliosi, di seta e pizzo, con nastri di raso e voile, che mia zia fa fare su misura da una sarta che viene apposta da noi oppure sceglie da un grande libro che lei le presenta, e ne ho tantissimi, quando diventano piccoli mia zia non vuole che vengano dati a nessuno, devono essere messi negli armadi nella stanza accanto alla sua, una stanza solo piena di armadi, armadi pieni dei miei vestiti, tutti ordinati per grandezza e colore, dal più piccolo al più grande. E i capelli, i capelli devono essere lunghissimi, non si possono tagliare mai. Mia zia me li spazzola tutte le sere prima di andare a letto con la spazzola di ferro e io devo stringere i denti, non posso lamentarmi in nessun modo. Dai quattro anni studio del pianoforte tre volte alla settimana ed esercitazione tutti i giorni, ore di esercitazione. Nei giorni in cui non faccio pianoforte vado a lezione di danza e quelle sono le prime volte che esco davvero. Mi porta mia mamma che tutto il tempo sta in piedi con le braccia incrociate a guardare, poi quando le lezioni cominciano ad essere prima di due, poi di tre ore, mi lascia e mi torna a prendere alla fine. Anche se la maestra di danza è vecchia davvero, e tiene un bastone lungo in mano che ti dà sulle gambe se non stai dritta, in quei momenti mi sento libera, i suoi occhi non sempre sono appesi a me, a volte parla con la pianista o esce e io posso chiacchierare o ridere un po’ con le compagne. Di andare a far loro visita o di invitarle a casa non se ne parla, anche quello ho smesso di chiederlo subito, perchè mia zia non sopporta i rumori, infatti per la casa io e mia mamma possiamo girare solo con le pattine di feltro, scivolando sul marmo. Studiare studio poco e male a casa con lei, che spesso non ha voglia di seguirmi e spiegarmi e sempre più spesso si addormenta con i libri illustrati sulle gambe. Imparo alla meglio a leggere e scrivere e a parlare un po’ di francese che mia zia mi insegna costringendomi a conversare adesso solo così quando stiamo insieme. Adesso studio piano tutti i giorni e vado a danza, tutti i giorni ore e ore. Ripeto in continuazione movimenti, gesti, arie, sonate, finchè non mi entrano dentro completamente, fanno parte di me. Ho odiato a volte questi esercizi, poi a un certo punto è stato come uscire al sole all’improvviso, attraverso di essi giungo in un tempo senza tempo, dove esisto, libera ed essenziale. Ti stiamo preparando a qualcosa di grande, dice mia zia, un matrimonio che ti porterà nella più alta società. L’ascolto e non rispondo, a lei non importa, a me nemmeno , non riesco a concentrarmi su quello che dice, come se la sua voce tracciasse note sconosciute su uno spartito.
Un pomeriggio, tornata dalla lezione di danza, apro la porta per salutarla perché lei vuole che vada sempre a salutarla quando torno, e la trovo ferma e silenziosa sul letto. E’ morta. Non mi viene da piangere, né adesso, né dopo il funerale. Per un po’ di giorni non vado a lezione, ora dormo da sola nella stanza della zia, ma nel suo letto non ci dormo, guardo al buio quella macchia scura pesante, che odora ancora del suo corpo. Fino a quel momento mangiavo nella stanza con la zia, con il vassoio che mia madre preparava per tutte e due. Ora devo mangiare in sala con lo zio, in un punto lontano del tavolo, vicino a mia madre che si siede e si alza per servirlo. Mangia in silenzio, con il viso sempre rivolto al piatto, come se non ci fosse nessuno, masticando e rimasticando il mangiare. E’ vecchio, non so quanto, ma robusto, ha baffi grossi, bianchi, che si strofina col tovagliolo. Una sera chiedo una cosa qualsiasi, forse che ora è, non so se a lui o a mia mamma, lui si alza di scatto con il bicchiere pieno d’acqua mischiata al vino e me lo lancia addosso. Vino rosso che si spande un po’ sulla tovaglia bianca, un po’ sul mio vestito di lino bianco, un po’ per terra. Poi riprende a mangiare. Resto ferma, bloccata, mentre mia mamma si alza e con uno straccio pulisce il liquido sul pavimento. Vai nel bagno a pulirti, prima che resti la macchia, e impara a stare zitta. Passa qualche giorno, non so quanti, non esco, continuo ad esercitarmi in salotto al pianoforte che ha noleggiato la zia per me, dormo, mangio, cammino per la casa lucida e deserta. Un giorno chiedo a mia mamma se posso tornare a scuola di danza, mi manca tanto il momento in cui usciamo di casa e vediamo gente che passa, vive, parla, sorride. E’ china sul pavimento a dare la cera e per rispondermi si alza a fatica e si mette di fronte. Mi guarda e così, all’improvviso, mi allunga un ceffone, poi un altro, poi un altro, e urla è finita la festa bellina, niente t’ha lasciato perché niente aveva, è tutto del vecchio e quello è tanto se ci mantiene. Ha le mani pesanti mia mamma e con quelle mani m’impasta, come se volesse rifarmi. Son finiti i suoni e i balli signorina, da domani m’aiuti a pulire. E sgomberi da quella stanza, dormi con me.
Non piango neanche sta volta. Mi chiudo in camera a chiave. Lei batte i pugni alla porta finché non si stanca ed è notte. Prendo un fazzoletto e ci metto dentro l’oro che trovo, anelli, bracciali, orecchini, non so quanto sia vero o sia falso, non mi interessa, al momento saprò. Ma prima mi taglio i capelli. Ci metto parecchio, ho solo una forbicina da unghie, ma alla fine eccoli come li voglio, giusti appena sopra le spalle. Vestiti non me ne prendo, solo quelli che ho indosso e poi ancora le mance di anni di pasque e natali che zia mi metteva in mano e io riponevo in un vaso senza sapere che farne, senza avere la voglia di un desiderio.
Aprire la porta è stato facile, le chiavi stavano appese vicino all’architrave. Poi arrampicarsi su un albero e da lì sul muretto. Saltare. Cose facili per il mio corpo allenato all’equilibrio. Il fazzoletto con l’oro cacciato in una vecchia borsa logora agli angoli che la zia usava per tenere i gomitoli. E’ quasi estate. In strada fa caldo e non passa nessuno che è tardi. Cammino veloce alla stazione distante da casa forse un chilometro. Da sempre sento i treni passare e ora ci salirò io. Verso Parigi dove si balla e si suona tutto il giorno e la notte, lo dicono le riviste illustrate di zia. Lì di sicuro per me ci sarà qualcosa da fare. E anche se è nuovo, non mi spaventa, è tutta la vita che imparo.
Così è andata e chissà se riuscireste a immaginare adesso chi sono. Perché tutto è cambiato. Tranne lo sguardo.