Intervista a Alessandra Baldoni

logo-black-1b8cbfffa728e7d6bad1af601bb1bebb08586938a134b821bd5a3fd8030fd37d

L’arte di Alessandra Baldoni è una dichiarazione d’amore poetica-raffinata-pulsante… di quelle che vorresti facessero a te almeno una volta nella vita perché hanno il sapore dell’essere stati riconosciuti nella propria unicità, nella propria essenza, nel proprio naturale movimento vitale… ed è una dichiarazione d’amore anche quest’intervista: Rispondo sempre con il cuore ed il ventre… (A. B.)

Chi è Alessandra Baldoni?

Una donna cresciuta tra i campi, la terra rovesciata per la semina, l’odore del lago e le pagine dei libri. Una donna che cerca lo splendore nella ferita, la salvezza dalla rovina. Ama custodire le cose, avere cura di ciò che è esposto ai venti, di quello che solitamente va perso o lasciato indietro e naufraga nell’abbandono.

Come sei approdata all’arte, e in che modo l’arte ti si è presentata?

Non so se si sia trattato di approdo o se in un certo senso io sia nata in mare. Non ricordo un periodo della mia vita in cui io non abbia scritto o fotografato, non mi viene in mente niente altro che sia stato così precisamente disegnato dentro me, come una scrittura a rilievo sulle mie stesse ossa, come una costellazione ricamata sul cuore. Ho sempre voluto fare arte, mi piace pensare che sia una questione di destino. E dal destino non c’è scampo – nel bene e nel male, nel medicamento come nel sale. L’arte mi si è presentata come un’emergenza, come stella polare, come punto cardinale. Anche nella difficoltà o nel dolore è il filo a piombo che mi tiene in verticale.

Cosa, del mondo che ti circonda, attrae la tua attenzione e cosa riesce ad avere un effetto tale da influenzare la tua ricerca artistica, e cosa influenza te?

Mi colpiscono soprattutto le storie, i racconti delle persone. Di certo ognuno ha qualcosa di strano incredibile ed eccezionale da raccontare. Le vite illustri e non illustri. Si tratta di immergermi in questo flusso, in questo fiume di accadimenti e di parole, setacciare e raccogliere, trovare l’oro. L’arte poi modella quell’oro grezzo con il fuoco, rende esemplare qualcosa di intimo e personale. Storie che altrimenti si perderebbero, scivolerebbero via nel nero di pece e di dimenticanza che si ingoia ogni cosa. Io muovo guerra all’indistinto, lotto contro l’opacità che rende uguali i volti, mi fermo a raccogliere ciò che per distrazione o leggerezza lasciamo cadere. Mi colpisce la stortura, l’evento che cambia la rotta, l’imprevisto che capovolge il pensiero. Le cose piccole o grandi che segnano un’esistenza, le tacche segnate sull’anima.

In che senso il fatto di essere donna ha determinato la tua vita? Quali possibilità ti sono state offerte, e quali rifiutate? Che destino possono aspettarsi le nostre sorelle più giovani e in che direzione bisogna orientarle?

Per me è stato determinante essere donna, innanzitutto per il mio modo di sentire, di amare, di vibrare. Il mio è uno sguardo femminile e non potrebbe essere altrimenti. È lo sguardo di chi tesse, di chi attende, di chi cuce e ripara: è l’attenzione e la cura, lo stare in pensiero, la favola narrata per dormire, il nastro che lega le lettere d’amore. Essere donna è la difficoltà che mi ha spinto oltre il limite imposto dalla società che privilegia il maschile a tutti i livelli. Nelle scuole non si studiano poetesse scrittrici artiste. Conosciamo solo come il mondo lo hanno pensato e scritto gli uomini. È metà della visione, ne manca una parte fondamentale. Bilancia in disequilibrio, musica composta con metà delle note. La voce del femminile è ancora sommessa, sovrastata, spesso non ascoltata. Credo che se riuscisse ad alzarsi e ad affiancarsi a quella maschile ne nascerebbe un canto splendido, una musica finalmente intera. Nulla in particolare mi è stato offerto in quanto donna e ciò che mi è stato rifiutato in un certo senso è stato più bello conquistarlo: più alte sono le mura, più grande è il fragore nella caduta. Ho molta fiducia nelle nostre sorelle più giovani, credo che possano portare a fioritura tutto quello che è stato seminato… qualche germoglio già si intravede – sopravvive al gelo dell’inverno. L’importante è che restino fedeli alla loro verità e non smettano mai di farci sentire la loro voce, che non cadano nella lusinga del tutto e subito che è una temibile gabbia e chiude gli spiriti indomiti-da brughiera-dentro un cliché accomodante. Non esistono scorciatoie, il fuoco va attraversato.

Se ti chiedo di rivolgere la tua attenzione dal cosa ricordi (il contenuto di una determinata esperienza) al come la ricordi (come rappresenti interiormente le esperienze già fatte):

• ricordi soprattutto le sensazioni?
• oppure è più forte il ricordo dei colori?
• ricordi soprattutto le voci o i suoni o il silenzio?
• oppure il volto delle persone?
• il profumo o l’odore di qualcosa in particolare?
• altro?

Ricordo con il corpo, è sempre un sentimento la mia memoria, un alfabeto braille sulla pelle da leggere con i polpastrelli. Sfiorandolo si fa brivido, si fa luce. È il ricordo come emozione che strappa un volto dalla notte, che definisce i contorni prima sciolti in un buio lontano. Come quando in camera oscura vedi apparire un’immagine sulla carta che oscilla “sott’acqua”. La prima cosa è sempre il volto perché il volto è amore. Poi il resto, voci colori e odori. Ma all’inizio del ricordo ci sono gli occhi, terra avvistata all’orizzonte.

Attraverso quale dei cinque sensi entri in relazione con il mondo, e quale utilizzi più frequentemente, più volentieri e con più familiarità quando lavori?

La vista senza alcun dubbio, sia perché lavoro con la macchina fotografica che per il fatto che attraverso essa posso osservare e leggere. Tutto quello che mi dà nutrimento passa per gli occhi. È la vista che mi porta dal bosco alla pagina. Ma anche gli atri sensi sono fondamentali, servono come riferimento a costruire la mappa per percorrere il mondo. Diciamo che gli occhi “vanno avanti” ma poi ogni senso si prende una parte nell’impresa di conoscere e raccontare il mondo con l’arte. E anche se lo sguardo resta al comando e spesso dà ordini al resto mi è capitato che una voce, una musica o il contatto fisico mi accendessero, fossero la scintilla di un lavoro. Sono inoltre una donna molto carnale, con una forte presenza fisica… amo toccare assaggiare annusare. Sono curiosa e golosa al tempo stesso.

Che approccio hai con la materia per arrivare agli aspetti contenutistici e concettuali delle tue opere?

Non maneggio la materia in senso stretto (a parte rare eccezioni), il mio lavoro parte già, in un certo senso, da un’astrazione. Uso la macchina fotografica e vorrei che somigliasse il più possibile a un diario, un taccuino in cui nasce e si custodisce la scrittura. La mia materia sono le parole, le storie mie o di altri, la letteratura. Sono la struttura di ogni cosa che faccio, sono il corto circuito, il carburante, la carica di senso. Sono l’acqua, sì ecco l’acqua, senza la quale nulla potrebbe nascere. Dalle parole escono le immagini, dalle parole si sollevano. Le parole sono la coperta, la placenta delle mie foto.

Il tuo lavoro nasce dall’impulso che segue a un’idea o a una necessità? C’è un filo conduttore che ti porta a tessere la trama delle tue opere?

Credo ci siano entrambe le tensioni. L’emergenza da un lato… il dolore, la ferita, la disobbedienza, la necessità. Ma dall’altro lato a volte c’è un’idea che parte da lontano, come una piccola luce tra le nebbie, qualcosa che si avvicina piano. È magari meno urgente e sanguigno ma altrettanto necessario e fatale. Credo ci sia come un’appartenenza sotterranea che lega i miei lavori, come una vena mineraria… potrei chiamarla amore questa traccia, questa radice genealogica.

Nella resa finale di un progetto artistico quanto peso hanno la pianificazione e la ricerca e quanto è imputabile, invece, all’imprevedibilità?

Cerco di prepararmi e preparare ogni cosa, prima con lo studio e la disciplina di ciò che voglio raccontare e che deve portarmi alla sintesi estrema dell’immagine, poi con la costruzione minuziosa del set in tutte le sue parti. Di solito ho incisa in mente la foto che sto per scattare. Ma l’esperienza mi ha insegnato che spesso l’imprevisto, lo sbaglio, la rottura sono un valore. Non ho la pretesa del controllo totale, lavorare sul limite o il contrattempo è una grande lezione. Una volta in un set di una foto una ragazza doveva tenere in mano i fili di alcuni palloncini neri. Era agosto, una giornata bellissima e placida. A un certo punto si alza un vento ed è talmente inaspettato che le sfuggono i palloncini di mano: restiamo senza una cosa essenziale. Li ho visti volare via come il cavaliere del secchio nel racconto di Kafka. Sono stata costretta a cambiare, a riscrivere quella storia lì in quel momento – a improvvisare come fossi su un palcoscenico – e ne è nata una delle mie foto più conosciute. Questo può capitare sul set e durante la gestazione di un lavoro… c’è sempre la possibilità di un colpo di vento che squaderni ogni cosa.

C come consapevolezza, M come memoria, P come persona… che significato hanno queste parole nella tua ricerca artistica?

Sono parole essenziali, come elementi di una formula magica. Le storie sono fatte di persone e memoria, sono ciò che di prezioso va preservato dall’oblìo, ciò che ci rende speciali e indispensabili. La consapevolezza è la colla, la calce che tiene insieme le cose. La consapevolezza è la scelta, l’atto che salva con amore.

Quali delle tue opere ci proporresti come punti di snodo fondamentali nel tuo percorso?

Per me ogni opera è una conquista. È uno strappo, uno scatto in avanti. Ma ci sono lavori che hanno segnato vere e proprie svolte, che per qualche motivo, che sovente sfugge all’artista stesso, sono più potenti, hanno una capacità di imporsi e creare un immaginario. Mi rendo conto che alcune opere hanno una capacità di attrazione, sono un magnete. C’è per esempio una foto di un lavoro di una decina di anni fa, Le mie parole sono balocchi da C’era un volto, che è come un incantesimo che cattura gli occhi. Dal mio punto di vista è il lavoro in cui ho capito quanto il mistero e la sospensione siano per me qualcosa di essenziale. Poi c’è la serie Le cose che vedi dove ho raccontato di favole, sogni, amore e memoria riuscendo a creare immagini che somigliano a segreti. E fondamentali sono stati lavori in cui ho interagito con gli altri come il work in progress Ti rubo gli occhi o il recente I need protection. Il primo lavoro è composto di diari che le persone scrivono per un mese per poi riconsegnarli: sulla prima pagina di ognuno c’è una foto scelta da me e quello è il loro punto di partenza per raccontare una storia: ne nascono come atlanti esistenziali, come mappe dell’anima. Per il secondo lavoro ho invece chiesto a ventuno persone di scrivermi di una loro paura impronunciabile o di un desiderio profondo e nascosto: ho costruito degli scrigni di vetro e ferro che proteggono le loro parole alleggerendole di quel peso e ho accompagnato ogni frase con una foto che in un certo senso evoca, accarezza e pronuncia sussurrandolo, questo loro segreto. Io custodisco, mi prendo cura di queste paure e desideri, li conservo in questo archivio sentimentale.

Cosa c’è di importante per te che vuoi che le tue opere dicano a te stessa e a chi le osserva? Quali sensazioni prova il tuo corpo quando hai la consapevolezza di aver raggiunto questa meta?

Vorrei che le mie opere portassero un’emozione potente, che spingessero verso l’interno-dentro. Mi piacerebbe che raccontassero qualcosa che segna e che sposta. Vorrei che spingessero a non rintanarsi, a mostrare il cuore, a correre il rischio del sentimento. Vorrei fossero una possibilità di rendere medaglie le ferite, ricami i segni dolorosi. Quando questo mi riesce provo una commozione profonda.

Come sai che sei un’artista?

Perché non potrei essere altrimenti. Perché non c’è un’altra via.

Quali sono le motivazioni, le spinte, i condizionamenti, i limiti e le conseguenze di essere un artista oggi?

I condizionamenti e i limiti sono tantissimi, siamo trattati spesso come alieni se non come reietti, come se ciò che facciamo non avesse valore alcuno ma al più fosse un gioco, un vezzo. Il talento non è più un valore così come non lo sono la cultura e la conoscenza. I musei chiudono, le scuole sono ridotte in condizioni disastrose. Per un artista si tratta di una lotta costante, di una guerra a una certa barbarie. C’è tanto bisogno dell’arte, della letteratura, di ogni meraviglia che cresce l’anima, la ingentilisce e forgia nella bellezza. C’è bisogno di immaginari e possibilità, le visioni si sono ristrette fino a diventare opache e superficiali. Piatte. Vedo il mondo scolorire e perdere consistenza e non mi piace per niente. Conosco artisti insegnanti, traduttori scrittori musicisti che per me sono eroi: fanno con coerenza e capacità il loro lavoro tra mille difficoltà e ostacoli ma lo fanno credendo che serva, che non sia un orpello o uno svago, che gli uomini privati di tutto questo sarebbero ridotti a ben poca e triste cosa.

A che cosa può aprirsi il mondo attraverso l’arte?

Alla consapevolezza, alla cura, all’attenzione. L’arte, la bellezza in senso intero, possono essere un antidoto e una bussola, uno scandaglio per trovare risposte diverse e per riportarci alla nostra essenza e specialità.

Quanto può essere utile oggi a un artista esporre in un determinato contesto? E quanto può essere utile il loro passaggio al contesto che li accoglie?

Sicuramente è importante, un contesto appropriato con una grande visibilità permette all’artista una crescita e un incontro con gli altri a un livello più esteso. Il contesto che ospita un lavoro serio strutturato autentico può solo trarne vantaggio a patto che però si creino le condizioni e l’educazione per la fruibilità dello stesso. C’è bisogno di riavvicinare le persone ai luoghi che accolgono l’arte, le grandi mostre a effetto o le nostre mordi e fuggi portano certo pochi risultati da un punto di vista sociale. Una mostra funziona se tocca le persone, se le spinge a un’indagine, se innesca qualche effetto – consapevole o meno – che le mette in discussione.

Che progetti hai in cantiere?

Workshop di fotografia narrativa, scambio con le persone prima di tutto. Poi ho un nuovo progetto in testa, sarà in bianco e nero e probabilmente avrà la forma di un’installazione, ma ancora è solo un sentimento. Ho tre personali da qui a giugno e vari progetti sparsi per l’Italia… insomma cose non mancano ma vorrei anche dedicarmi alla scrittura perché è il mio modo di trattenere il respiro nelle apnee e mi aiuta a dare un nome esatto a ciò che preme contro il cuore.

Dai la risposta alla domanda che volevi io ti facessi e che non ti ho fatto…

Quanto contano gli altri nella tua vita e nella tua arte? Non sarei quello che sono senza gli splendidi incontri, le passioni, gli innamoramenti. Senza mio padre, la mia compagna, i miei amici più cari. Senza tutte le persone pazze che posano per me o che mi raccontano qualcosa di loro. Senza questi piccoli miracoli pagani, senza questi prodigi celesti. Ho intorno a me persone incredibili con cui divido vittorie e sconfitte, ostinate quanto me nel credere che l’arte sia indispensabile. Senza la condivisione tutto questo non avrebbe senso. Gli altri mi danno forza, mi aiutano a sorreggere lo scudo. Senza questo amore sarebbe solo cenere spenta, invece tutto è infuocato e incandescente.

Alessandra Baldoni è nata nel 1976 a Perugia dove vive e lavora.
www.alessandrabaldoni.it

 

Rosso come l’amore

home_icon_logo

La bombetta rossa è poggiata sulla cappelliera, sopra una vecchia sedia di legno dipinta di rosa. Un paio di scarpe rosse con i lacci, una parete rossa, il cappottino rosso, il rosso del vestito che indossa una figura femminile nella serie fotografica Salva con nome che, lo scorso autunno, aveva dato il titolo alla personale presso la galleria Vanna Casati di Bergamo. È innegabile che per Alessandra Baldoni (Perugia 1976) il rosso sia un colore significativo, intriso di significati noti che vengono interiorizzati creando uno sconfinamento continuo tra arte e vita. Ma non c’è solo il rosso nello studio dell’artista a Ellera (Perugia), a pochi chilometri dalla sua casa. Una parete è gialla, un’altra azzurra, poi c’è il verde pisello dello scolapasta, l’azzurro del termosifone, il turchese del divano… colori che illuminano il seminterrato, sottolineando anche una presenza giocosa e allegra.
Nei suoi lavori, invece, a prevalere sono una vena malinconica, una sensazione di spiazzamento. Riflessioni sull’amore quelle che Alessandra Baldoni propone parallelamente attraverso l’uso della poesia e della fotografia. Parte spesso da ispirazioni letterarie, è così anche per il lavoro su Pinocchio, realizzato l’estate scorsa per il Premio Cairo, di cui sono visibili le tracce disseminate nello studio: abiti e maschere di plastica usate per lo shooting. Il mondo delle favole, luogo di sogni e amenità, non è che la proiezione di sentimenti umani in tutti i loro limiti, in tutta la loro grandezza. Poggiati con disinvoltura su un tavolino, i libri di due grandi artisti che sono stati fondamentali per la crescita di Alessandra: Ulassai. Da legarsi alla montagna alla Stazione dell’Arte di Maria Lai e  Omaggio a Spoon River di Mario Giacomelli.
Nel tuo lavoro crei delle messinscene come in un set cinematografico, sei d’accordo?
«Il momento dello scatto è la fase finale, quando scatto velocemente – lo scatto di per sé è, in un certo senso, la cosa più veloce – l’immagine che è incisa nella mente. Il lavoro è prima di tutto ricerca e studio, che è quello che mi porta via più tempo. Quando ho avuto l’idea di lavorare su Pinocchio per il Premio Cairo – era primavera quando mi è arrivata la lettera d’invito e dopo aver parlato con il curatore, Luca Beatrice – per mesi mi sono documentata su tutto quello che era stato scritto, realizzato, pubblicato sull’argomento. Diversamente da Alice nel paese delle meraviglie, che è una storia che è stata molto interpretata anche dai fotografi, Pinocchio è stato in un certo senso quasi trascurato. Durante questa mia ricerca la scintilla è stata la lettura di Pinocchio: un libro parallelo di Giorgio Manganelli. Quello che mi ha colpito è come Manganelli, un autore che adoro, abbia tirato fuori l’aspetto magico ed esoterico. Pinocchio è attraversato da una serie di simbolismi, intanto nasce vegetale, poi diventa animale – trasformandosi in asino – ed infine umano. La figura dell’asino, poi, fa parte del percorso dell’iniziato. Ad un certo punto viene anche impiccato, ed è lì che il libro doveva originariamente finire. C’è anche tutta una serie di incontri che sono tante chiavi di lettura e che fanno capire come questa favola si fondi su conoscenze antichissime di magia. Di questa favola scura dove è sempre buio e piove – a Pinocchio capitano delle situazioni terrificanti – ho preso degli elementi simbolici, delle situazioni da poter rappresentare in una specie di hotel – il lavoro si chiama Hotel Pinocchio – in cui si entra e si possono aprire porte, stanze che hanno ognuna il numero di un capitolo del libro e, dentro le quali, si assiste ad una scena. Ho iniziato con la stesura delle piccole sceneggiature che precedono lo scatto, a cui è seguita la ricerca degli abiti. Per questo progetto ho avuto la fortuna di lavorare con una giovanissima stilista, Ida Nicolaci, che ha creato gli abiti per il set. Ida è stata eccezionale nell’interpretare i miei pensieri, tanto più che le parlavo di Pinocchio in termine di sentimenti. Arrivare allo scatto, per me, significa semplicemente concludere un percorso che da mesi mi circola nella testa, nel cuore, nelle ossa. Un percorso che sogno di notte e di cui non faccio altro che parlare con gli amici, che arrivano ad odiarmi per quello che diventa a tutti gli effetti una piccola ossessione».
Sempre alla letteratura ti sei ispirata per “Salva con nome”.
«Sono una grande amante della letteratura. Prima ancora che fotografa, mi definisco scrittrice. Sono nata, cresciuta, allattata dai libri, senza peraltro avere grandi studiosi in famiglia. Come dico spesso, la mia emozione è appesa al rigo della pagina più che all’immagine, la letteratura spinge l’immaginazione. Nei miei lavori cerco sempre di mantenere almeno un po’ di mistero, perché trovo che l’opera d’arte sia affascinante quando sussurra qualcosa, ma non grida tutto. Quando diventa una stampella su cui appendere qualcosa di proprio. Avevo in mente da tempo di realizzare un piccolo tributo a tutte le donne della letteratura che sono state mie compagne di viaggio. C’è chi affida il proprio destino ai Ching e chi, come me, alle pagine di un libro. Tra le scrittrici che mi hanno accompagnata ci sono Antonia Pozzi, Emily Dickinson, Virginia Woolf, Amelia Rosselli, Ingeborg Bachmann, Louise Glück. Ho iniziato questo lavoro, che vorrei portare avanti, attraversando queste donne, rileggendo le loro parole e lasciando che mi facessero compagnia di notte, che è il momento in cui leggo. Ho cercato di trovare delle frasi, dei loro versi che fossero per me rappresentabili visivamente.  Il titolo Salva con nome viene dal fatto che è l’operazione che facciamo quando scriviamo con il computer per salvare un file. Inoltre queste donne sono anche “salvate con il proprio nome”, nel senso che quasi tutte hanno sofferto la loro condizione di scrittrici e tutte sono state convinte che non sarebbe rimasto niente di loro, perché non c’era uno spazio per la loro voce che sarebbe stata sepolta da urla più potenti. Non a caso molte di queste autrici sono morte suicide. Il mio, quindi, è stato un voler restituire loro qualcosa, visto che il loro nome era arrivato a me».
Quale è il confine tra vita privata e arte?
«È un confine labilissimo. Nel mio modo di essere racconto le mie scrittrici, quello che mi accade e spesso entrano nei set oggetti legati anche a delle mie storie sentimentali. Sono un sottocodice nel codice leggibile solo per una persona».
Hai studiato filosofia, dopo aver frequentato il liceo classico. Il tuo approccio alla fotografia è da autodidatta, come nasce l’interesse per questo medium?
«Fotografo da quando mio padre all’età di 8 anni ha avuto l’idea di regalarmi la prima Olympus compatta. Che emozione quando l’ho rivista al Museo Alinari! Con quella macchina fotografica ho cominciato a fotografare tutto quello che mi circondava, anche i miei genitori e mio fratello. Qualche anno dopo – ero adolescente – ad un Natale è arrivata la prima reflex che mi portavo ovunque, sempre regalata da papà. Una volta, al liceo, durante un’occupazione ho smantellato la classe per allestire una mostra fotografica. Ho imparato facendo gli sbagli, scoprendo la camera oscura e fotografando senza una grande progettualità. Ma sono sempre stata molto curiosa, andavo a vedere le mostre, ricordo ancora la mostra-scandalo di Mapplethorpe a Venezia. La tecnica l’ho imparata da un “fotografo di paese”, Maurizio Dogana, che era molto bravo. Lo chiamo così perché era la definizione che amava dare di se stesso. Fotografava la banda, le manifestazioni, le persone ma portava avanti anche una sua ricerca. È stato da lui che, per la prima volta, mi è capitato tra le mani un libro di Diane Arbus e anche di Giacomelli».
L’amore è il filo conduttore tra le tematiche che affronti.
«Esiste un argomento più interessante? Sono millenni che la poesia parla di amore, abbandono, desiderio, attesa».

Menzione speciale della Giuria, ‘Premio COMEL ‘ 2015

cropped-newlogo_center1

Nasce a  Perugia nel 1976, dove vive e lavora.
Fotografa fin da bambina e da sempre è affascinata dalla scrittura. Attenta lettrice nutre il suo lavoro di letteratura e interpretazioni originali tra parola e immagine. Usa la macchina fotografica come un taccuino per annotare sogni, accadimenti, visioni. Le foto sono il risultato di ‘piccole sceneggiature scritte per uno scatto’. Mette in scena veri e propri set, costruisce un mondo metafisico e incantato, cerca di raccontare i luoghi dell’anima, quelle geografie esistenziali in cui ognuno può riconoscersi.
(www.alessandrabaldoni.it)

D: La metamorfosi sembra essere un’impronta assai prevalente nelle tue opere. Dalle pareti che il tempo trasforma ai corpi in fieri che immortali nella loro transitorietà. Di recente hai partecipato alla mostra “Idrophilia” che forse ha ulteriormente stimolato questa tua ricerca. L’acqua come elemento vitale e in cui la vita continuamente nasce e si trasforma. Puoi parlarci di questa esperienza artistica?

R: Amo raccontare il cambiamento e la trasformazione, nei miei primi lavori ho attraversato il sentiero magico della favola e messo in scena sovente incantesimi e sortilegi. Mi piace vedere “cosa succede” quando qualcosa scombina la consuetudine ed incendia l’abitudine, quando la tessitura del reale si sfarina e dentro le crepe della storia si insinuano ombre e possibilità.
“Idrophilia” è un progetto curato da Ilaria Margutti che mette in relazione venti artisti con l’elemento vitale dell’acqua in un luogo speciale: la “Caserma Archeologica”, uno spazio che dall’abbandono e dal silenzio è diventato un contenitore di possibilità, un cuore pulsante, un crocevia di intenti e talenti. Oltre ad un mio progetto esposto – “Ti rubo gli occhi”- c’è la mostra finale del mio corso di fotografia narrativa con tutti i lavori dei miei ragazzi (studenti dei vari licei di Sansepolcro) e posso dire con orgoglio che la vera emozione sono stati loro. Vederli mettersi in gioco, rischiare e raccontarsi, pensare e sentire la fotografia ed impararne la cura- che sempre di cura si tratta quando c’è l’arte di mezzo- è stato per me immergermi in qualcosa che mi ha segnata e commossa. Ecco, voglio parlare di questa acqua di commozione, di questo mare dolcissimo che ha ridefinito gli orizzonti. L’acqua si insinua nelle fessure, è potente, arriva e porta nascite e primavere. L’arte è fatta di condivisione è relazione, è seme, polline che germoglia negli occhi e nei respiri.

D: Qual è stata la tua formazione artistica e quali sono i tuoi artisti/le tue artiste di riferimento?

R: Non ho una formazione accademica in senso stretto, ho fatto il liceo classico e studiato filosofia. La letteratura è il mio più grande nutrimento, le mie emozioni sono sempre legate alla pagina. I libri sono una sponda, un puntello, una mappa. Sono il filo a piombo sul mondo. La poesia in particolar modo è salvezza, è parola intera e integra, antidoto. Quando sono in difficoltà è lì che mi rifugio, è il luogo del medicamento e delle risposte. Dalle parole nascono e si sollevano le immagini, sono l’innesco, la scintilla della creatività. Sono molti gli artisti che mi hanno segnata e a cui faccio riferimento, da Mario Giacomelli a Duane Michals, da Diane Arbus a Sophie Calle. Ma anche Louise Bourgeois, Annette Messager, Regina Josè Galindo, Maria Lai. La lista sarebbe davvero lunga, si arricchisce e amplia nel tempo… per fortuna c’è ancora tanta meraviglia da attraversare, terre da conoscere e respiri da consegnare allo stupore.

D: Partecipi all’Expo di Milano per il progetto “Cibi condimentum esse famem – La fame è il condimento del cibo”. Come hai elaborato l’idea e da quali premesse (letture, altre esperienze artistiche) personali hai scelto di partire?

R: Sono stata davvero entusiasta quando mi è arrivato l’invito a partecipare al progetto “Cibi condimentum esse famen”:  mi piace molto l’idea della fame intesa come spinta e desiderio, come una passione che si fa bisogno e muove verso una ricerca. La difficoltà era cercare di affrontare l’argomento da un punto di vista inedito, trasversale. Come spesso accade il colpo di fulmine è arrivato dalla letteratura. Nelle mie incursioni tra libri saggi e miti, mi sono imbattuta in un racconto di Kafka, “Un digiunatore”, che mi ha rapito totalmente: è stato come essere travolti da una rivelazione. Da quelle pagine incredibili, attraverso un processo creativo che mi ha fatto scegliere i simboli e i modi della narrazione ma anche i luoghi i volti e gli oggetti di scena, sono nate le sei immagini che compongono il progetto. La serie fotografica “Un digiunatore” riflette sulla vocazione e la disciplina necessarie nell’arte, è la storia di un’astinenza portata alle estreme conseguenze. La sottrazione dal cibo, la privazione  – metafora dell’arte e della scrittura –  sono il terreno su cui il digiunatore si misura,  il luogo in cui mostra al pubblico la sua dedizione assoluta ed inevitabile al proprio talento. Il digiunatore, dopo un iniziale successo di pubblico,  finirà ignorato e dimenticato in un circo ma non smetterà di digiunare e si spingerà all’estremo, fino alla morte. Ho sentito molto personale questo seguire il proprio talento e la propria disciplina fino all’estremo, questo non tradire mai il proprio fuoco sia nei momenti di gloria e successo sia nei momenti in cui il pubblico ti abbandona.
Come a dire che non c’è un’alternativa, nessun piano b. L’arte, nel bene e nel male, è tutto – è una scelta che ti sceglie e ti porta via.

D: A partire dalla tua presenza all’Expo, quale responsabilità senti di avere come artista a livello sociale?

R: L’artista ha il compito di prendersi “cura” di ciò che spesso, distratti o superficiali, abbandoniamo e lasciamo indietro. L’arte è un seminare incessante, un incontro con l’altro e il diverso. Racconta e cerca di entrare nelle fessure dell’anima, è una possibilità di avere antidoti, una terra nuova dopo un naufragio. Antonia Pozzi, poetessa che amo molto, ha scritto dei versi che dicono esattamente quello che io provo, che mi somigliano…questa idea dell’arte e della poesia come di qualcosa che seppur fragile ci tiene in equilibrio, si fa ponte sopra gli abissi ed i dolori: “Vorrei che la mia anima ti fosse / leggera, / che la mia poesia ti fosse un ponte, / sottile e saldo, / bianco – / sulle oscure voragini / della terra”. Spesso davanti ad un’opera siamo in difficoltà… qualcosa ci tocca, ci fa male, è come sale su una ferita. A volte ci commuove, racconta qualcosa che ci appartiene e che noi -per paura o confusi dalle mille voci che ogni giorno in ogni momento ci chiamano urlando- avevamo messo da parte… allora in noi riaffiorano idee e sentimenti che ci rendono diversi, spostano la nostra visione (a volte troppo “corta”).

Come artista faccio il possibile per raccontarmi con onestà e coerenza, cerco di guadare le acque scure, cerco di condividere e scambiare… sono una “cercatrice d’oro”, il setaccio è l’arte. Siamo estremamente fragili e vulnerabili, l’arte ricama splendore sulle ferite, è il bicchiere d’acqua per la notte-quello accanto al comodino- che colmerà la sete qualsiasi sia il buio da cui proveniamo.

D: Sei stata scelta per la collettiva “Leggero come alluminio”, dopo una selezione internazionale che ha deciso i tredici artisti dell’Unione Europea per la partecipazione al premio COMEL Vanna Migliorin 2015 – Arte Contemporanea, a cui la mostra era collegata. E hai ricevuto una menzione speciale da parte della giuria dei critici d’arte, che ne hanno riconosciuto la valenza partecipativa diretta al pubblico e la leggerezza poetica al richiamo della memoria. I tuoi misteriosi scrigni aprono mondi inconsueti che coinvolgono lo spettatore. Il titolo “I need protection” ha conferito un appello ai piccoli mondi che hai costruito. All’interno un’immagine, un dettaglio, un sentimento da condividere o da richiudere, all’esterno una richiesta su cui riflettere: un bisogno di protezione. A chi è riferito? Al lavoro dell’artista e ai suoi mondi da tutelare? Al visitatore che si immedesima e sceglie un quadro in cui insinuare il proprio sentire?

R: Confrontarmi con un metallo come l’alluminio per produrre l’opera per il Premio COMEL è stata davvero un’esperienza emozionante perché mi ha permesso di mettermi alla prova e conoscere cose del tutto nuove. L’idea degli scrigni mi è venuta riflettendo sul bisogno di protezione che ci attraversa da sempre, ognuno di noi ha piccoli rituali, oggetti portafortuna, cose da fare o non fare per scongiurare pericoli o far avverare qualche richiesta. Credo che sia la protezione ciò che più ardentemente cerchiamo, un nido, un abbraccio -quel rifugio che ci permette di essere nudi e fragili, di non nasconderci, di essere visti nelle ombre e nella luce, di essere amati da uno sguardo che tutto contenga. La riflessione nasceva poi dall’accorgermi che ci sono grandi paure e desideri impronunciabili (parole che accerchiamo di silenzio perché il solo pronunciarle ci spaventa) che però sono come un marchio, un segno, una corda alle caviglie che ci blocca e tiene fermi. È difficile lasciarli andare perché diventano una parte di noi, sono come l’ombra attaccata ai piedi. Allora ho avuto l’idea di prendermene cura io, di metterli via in una specie di archivio sentimentale. Tredici persone mi hanno affidato le loro parole, piccole frasi e poesie –sigillo infuocato delle loro paure e dei loro desideri più grandi- così che io potessi costruire delle piccole teche e custodirle come fossero reliquie. Questo ha reso loro “più leggeri”, liberi perché consapevoli che qualcuno avrebbe avuto cura delle loro parole. Parole alle quali poi ho associato delle immagini poetiche, delle piccole metafore visive. Sono nati questi tredici libri speciali, tredici segreti, misteri raccontati in bianco e nero. “I need protection” è un lavoro che nasce per raccogliere, archiviare in modo artistico e avere cura, invita lo spettatore ad avvicinarsi, leggere, aprire gli scrigni e lasciare che l’emozione racconti e risuoni… il vetro che vela ma lascia intravedere diventa uno specchio che porta alle proprie emozioni e paure. È la trasparenza che mi interessa, il riflesso che diventa acqua in cui immergersi, riconoscersi.

D: Riprendendo la parte conclusiva della presentazione del premio Cairo 2013, su di te leggiamo: “Il fuoco per Ingeborg Bachmann, quello stesso fuoco che l’ha vista bruciare nella sua elegante casa di via Giulia a Roma nel 1973, l’acqua, causa del suo annegamento suicida per Virginia Woolf (Rodmell,1941) ma anche elementi cari alle poetesse in vita come il ghiaccio, ad esempio, per Antonia Pozzi. Quelle della Baldoni sono di sicuro immagini dall’indiscusso valore concettuale, immagini forti e a tratti scioccanti, immagini che gridano vendetta. Vendetta per una poesia negata, per una, cento, mille voci imbavagliate.” L’arte secondo te è più vendetta (urlo, immagine forte, urto) o più equilibrio (ovvero trovare un nuovo ordine in grado di sovvertire quello esistente)?

R: La serie di cui parli si chiama “Salva con nome” e proprio nel titolo credo ci sia in gran parte la risposta alla tua domanda. “Salva con nome” – oltre ad essere una citazione del titolo dell’ultima raccolta poetica di Antonella Anedda – è ciò che ci compare in uno schermo quando scrivendo non vogliamo perdere le nostre parole, è un gesto che crea un documento, un qualcosa che resta. Mi rendo conto che è un gesto che fa parte di una consuetudine e nell’abitudine spesso le parole si appiattiscono, perdono di senso e spessore. Ma se torniamo alla loro interezza ci accorgiamo che c’è un intento di “salvezza”, di tenere fermo e saldo qualcosa che altrimenti sparirebbe e si perderebbe nella dimenticanza, nella notte che scontorna ogni cosa. “Salva con nome” significa anche salvata da e per il proprio nome, è una specie di rivendicazione, di atto di presenza. Questa serie fotografica è dedicata alle poetesse e scrittrici che hanno formato il mio mondo interiore e le mia visione e a cui sempre torno quando ho bisogno di risposte. Tutte loro, queste donne incredibili, indomite e tormentate, hanno lottato per poter avere spazio e voce in un mondo secolarmente maschile; spesso hanno pagato con la loro stessa vita questa impossibilità, il silenzio cui sono state costrette. Mi viene in mente quella poesia di Alda Merini : “Spazio spazio, io voglio, tanto spazio / per dolcissima muovermi ferita: / voglio spazio per cantare crescere/ errare e saltare il fosso / della divina sapienza. / Spazio datemi spazio / ch’io lanci un urlo inumano,  / quell’urlo di silenzio negli anni / che ho toccato con mano” .  Ecco, questo è l’urlo di cui parlo: la vendetta è invece l’essere sopravvissute attraverso la loro arte, essersi fatte seme e germoglio, parola potente che attraversa il tempo. Sono queste le scrittrici e le artiste (penso anche a tutta una serie di fotografe che hanno attraversato il ‘900) che hanno aperto un varco, sono pioniere, esploratrici di terre mai nominate. Ed è grazie a loro che io oggi ho dei riferimenti, che ho storie in cui riconoscermi. Dire il mondo è possederlo, la parola è qualcosa di potente e magico, decide la sorte, segna i destini. A queste donne martiri e guerriere volevo rendere omaggio attraverso delle immagini nate dai loro versi, volevo ricordarle, tenere stretto forte nel pugno il filo che mi lega a loro e che attraversa e annoda il mio cuore.

D: Un aforisma giudaico recita: “Dio ha creato gli uomini perché Egli – benedetto sia – ama i racconti.” Gli esseri umani sono veicoli di ispirazioni più grandi di quanto il limite corporeo li porti a sostenere. Per questo, credo, amiamo farli uscire questi racconti, esternarli per alleggerirci di un peso ma anche di una ricchezza. Tu lo fai sia attraverso le parole sia attraverso l’arte dell’immagine e anzi sostieni che l’ossatura della tua arte sta nella scrittura. L’una non può fare a meno dell’altra?

R: Sono convinta che esistere sia raccontare ed essere raccontati. Siamo storie, siamo la trama che da senso agli accadimenti. La scrittura è la tessitura d’inchiostro che dà forma alla narrazione. E’ medicamento, guarigione. Scrivo da sempre – ed è vero che per me le parole sono l’ossatura delle mie immagini, ne sono il midollo. Non ne potrei mai fare a meno, dico sempre che io scrivo piccole sceneggiature per uno scatto. Ma anche in senso più lato – la scrittura è la scintilla, la carica di senso, la vena d’oro. Non potrebbe essere altrimenti. Che siano le mie parole o quelle di cui mi nutro, quelle della grande letteratura e poesia – sono comunque il pane della mia sopravvivenza e della creazione. Per me inscindibili, potenti come un abbraccio, arte e parola sono sempre connesse. Come filo ad ago per cucire e ricucire. È la carta il luogo da cui si sollevano le mie immagini, la mappa che mi porta alla messa in scena delle mie serie fotografiche.

D: E quali scrittori/scrittrici tornano più spesso nel tuo modo di sentire ed esprimerti?

R: Ho diversi amori che durano da anni come Virginia Woolf, Emily Dickinson, Cervantes – solo per dirne alcuni – e poi ci sono le passioni improvvise come Antonella Anedda, Elisa Biagini ed Agota Kristof , Patrik Modiano. La cosa meravigliosa della letteratura è che apre porte, crea incontri e connessioni. Sarebbe difficile citare tutti i nomi, ed è meraviglioso scoprire qualcosa che di nuovo emozioni e scombini, che mi allaghi il cuore e l’anima in una sorta di dolcissima prigionia.

D: Prossimi progetti?

R: Innanzitutto portare avanti i miei workshop sia con i ragazzi dei licei a Sansepolcro sia in collaborazione con le gallerie. A novembre farò una mostra a Cagliari, sarà un lavoro in bianco e nero legato alla favola, ai sogni e agli incubi… un lavoro sulle inquietudini e le ombre. Per l’anno nuovo due grandi progetti, uno riguarda la galleria Gallerati a Roma (data da definirsi) e uno ad ottobre 2016 alla Sabrina Raffagello Arte Contemporanea a Milano dedicato ai racconti di Kafka. “Un digiunatore” è stato l’inizio di un progetto molto letterario dedicato allo scrittore boemo che diventerà anche libro d’artista.

Per Voce Creativa: Intervista ad Alessandra Baldoni

Schermata-2015-10-27-alle-16.00.21

“PER VOCE CREATIVA” è un ciclo di interviste riservate – e dedicate – alle donne del panorama artistico italiano contemporaneo. Per questa occasione, Giovanna Lacedra incontra Alessandra Baldoni (Perugia, 1976) :

E’ nata il 6 maggio 1976 sotto il segno del toro, ed ha presto intrapreso uno dei viaggi più magici e faticosi che si possano scegliere: quello dentro di se stessa. Lo ha fatto attraverso la penna e l’obiettivo fotografico; vecchi album di famiglia e indimenticabili pagine di letteratura al femminile.

Fotografia e poesia sono diventate il suo linguaggio. La sonda con cui attraversa l’universo e scaglia l’indicibile, tra luci silenti e ombre di pece. La bellezza, però, vince sempre.  La bellezza è nella vita che trionfa – che cola dalla piaga – oltre le ombre. Anche quando “germoglia dalla ferita”.

La sua ricerca sta tutta nel saper perdere e ritrovare le tracce dell’inafferrabile: quello di un’immagine senza tempo o di una poesia precipitata sul foglio, dall’eternità.

Alessandra Baldoni ha una semplice urgenza: raccontare lo splendore riassumendolo in un’immagine. A suggerirle la visione sono sovente  versi di autrici come Amelia Rosselli, Antonia Pozzi,Virginia Woolf, Ingeborg Bachmann… oppure i suoi. Perchè Alessandra, prima di tutto scrive.

Lo scatto non è che l’arrivo. È l’approdo di un viaggio minuziosamente raccontato in appunti, annotazioni, progetti. E i luoghi che scandaglia, le stanze che attraversa, i boschi che setaccia e i laghi che capovolge, sono tutti sulla mappa della sua anima.

“Ho il mio mondo dentro

e la verità è uno spiraglio

per ricongiungere cielo e terra

ma deve passare di quà

dentro il mio ventre

dove sopito giace

il suono del tuo nome “

[Alessandra Baldoni  | MA.Rea | 1999]

 

Laureata in filosofia, sente, legge, fotografa e ama tra Roma e le sue amate sponde del lago Trasimeno.

Questa è la Voce Creativa di Alessandra, per voi:

G.: Chi sei tu? La donna, l’animale, l’artista…

 A.:  Sono l’animale che cerca una tana per la notte, che respira bosco dalla narici – sono la fedeltà immediata alla terra. Sono la donna che ama, che siede sulle rovine e pensa come raccontare lo splendore. Sono l’artista che naviga a vista nel destino ma con il nord inciso sulla pelle per non perdere mai le mie stelle anche nel buio di pece delle difficoltà.

A.:  Sin da bambina non ho avuto altro desiderio se non quello di essere un’artista. Non so neppure se posso parlare di scelta – almeno all’inizio. Era scritto nelle cavità delle ossa, viaggiava come messaggio luminoso nel mio sistema nervoso. La scelta è nella coerenza e la perseveranza, nell’andare avanti nonostante tutto. La scelta è sapere che la bellezza germoglia dalla ferita.

G.: Perché lo fai?

A.:  Perché non potrei essere altrimenti né fare altro. Perché credo che l’arte sia strumento per la crescita, credo abbia il potere salvifico di mostrarci le cose in modo diverso. Perché l’arte si ferma e racconta ciò che perdiamo, ciò che lasciamo indietro… ci porta ad ascoltare le voci minori, a fare spazio, a correre il rischio di indagare realmente chi siamo. (Ma se proprio devo pensare a qualcosa d’altro … direi l’illusionista, perché amo vedere lo stupore negli occhi).

G.: Perché la fotografia?

Alessandra Baldoni - C'er un volto - stampa fotografica da negativo, dibond cm 50x60 - 2005

Alessandra Baldoni | “Le mie parole sono Balocchi” dalla serie “C’era un volto” – stampa fotografica da negativo, dibond cm 50×60 – 2005

A.:  Un po’per caso (mio padre che a otto anni mi regala la mia prima “compattina”, una Olympus e da lì non ho mai smesso di fare foto) e un po’per necessità personale. Ho sempre amato la fotografia, i vecchi album di famiglia, le immagini in bianco e nero di nonni e antenati di cui a me arrivava si e no solo il ricordo del nome. Da piccola stavo ore ad inventarmi storie su quei volti sbiaditi. La fotografia ferma solo un istante – uno solo – e non svela mai tutto.Intorno ad una foto si può immaginare, si può scrivere, supporre, indagare. E’quella crepa nella memoria, quello strappo nel tempo dalla cui fessura nasce la bellezza.

G.: Quale credi sia il compito di una donna-artista, oggi?

A.: Credo sia quella di raccontare l’altra metà del cielo e della terra, l’orizzonte capovolto – al polo opposto. Credo sia quello di essere coerente e fedele alla propria sensibilità, di mostrarci con il suo sguardo altre possibilità, altre storie, altre verità.

G.: Quali sono le tematiche della tua ricerca e quanto c’è di autobiografico?

A.: In un certo senso, ogni mia opera è assolutamente biografica. Parlo di amore, memoria, sogno, perdita, letteratura. Non potrebbe essere diversamente. Devo “sentire” ciò che racconto con le mie opere, altrimenti tutto diventerebbe maniera, esercizio di stile. Tanto più è intimo il racconto, tanto più tocca corde universali e permette un riconoscimento. Parto sempre dalle mie stanze, da me, ma poi cerco il simbolo, cerco di rappresentare storie e accadimenti con metafore visive.

G.: Come nasce un tuo lavoro (step by step) ?

A.: Prima c’è il fuoco, il sentimento di qualcosa che attira i miei occhi: l’ispirazione può arrivare da qualsiasi direzione e innesca un cortocircuito in me. All’inizio, all’origine – c’è sempre la parola. Ogni mia immagine nasce e si solleva dalla scrittura. Scrittura di altri o parole mie che spesso entrano anche a far parte del lavoro. Diciamo che stendo sulle pagine del mio diario piccole sceneggiature per uno scatto. Lavoro per serie fotografiche quindi in primo luogo c’è lo studio, la ricerca, la lettura. Poi il diario raccoglie anche idee spunti ricerche.  Preparo ogni cosa, scelgo volti, luoghi, abiti, accessori e oggetti per il mio set. Quando arrivo allo scatto ho tutto talmente inciso nella mente che paradossalmente è il momento più veloce. Arrivare a quello scatto, alla costruzione del set e della mise en scène può richiedere settimane intere. Il lavoro è pronto quando le immagini si specchiano nei titoli e nelle parole da cui sono partita e la serie è coerente nell’insieme.

Giovanna_Lacedra_Alessandra-Baldoni_Copertina-libro-Monica-Pareschi

Foto in copertina: Opera di Alessandra Baldoni | “C’è come un dolore nella stanza ed è superato in parte” dalla serie “Salva con nome” – 2013.

G.: Ad ispirarti, influenzarti, illuminarti ci sono o ci sono state letture particolari?

A.: Le mie emozioni sono sempre appese al rigo della pagina. La letteratura è nutrimento, acqua di gestazione, placenta di carta che avvolge l’immagine. Sono cresciuta trae con i libri, e restano un amore incondizionato. Negli ultimi anni leggo soprattutto poesia e ho una grande passione per i racconti, perché richiedono esattezza e disciplina e non ammettono concessioni, né esitazioni. Sono i luoghi dove si sperimenta, dove le parole sono scardinate dall’abitudine che le consuma e tornano ad avere una potenza quasi esoterica. Ultimamente, una mia immagine ispirata ad Amelia Rosselli (“C’è come un dolore nella stanza ed è superato in parte”) ha avuto il privilegio di essere scelta come copertina della raccolta di racconti “E’di vetro quest’aria” della scrittrice e traduttrice Monica Pareschi.Ne sono molto fiera e credo che questa foto non avrebbe potuto sentirsi “più a casa”, al posto giusto, che sulla copertina di questo libro incredibile.

G.: Che musica ascolti quando hai le mani in pasta al tuo lavoro?

A.: Musica diversa secondo il progetto a cui sto lavorando. Molto jazz, musica classica, ma anche Tori amos, Joan as Police Woman, Mogwai, Cat Power, Antony and The Jonson…

 

G.: Scegli 3 delle tue opere, scrivimene il titolo e l’anno, e dammene una breve descrizione.

A.: “Fino a te”, dalla serie “Le cose che vedi” 2008.

Giovanna_Lacedra_Alessandra-Baldoni-Fino a te

Alessandra Baldoni | “Fino a te” , dalla serie “Le cose che vedi” stampa fotografica a colori da negativo, dibond, cm 140×100  – 2008

C’è questo sentimento del perdersi, questo rischio tutto femminile del bosco. Capita spesso che le protagoniste delle mie foto siano di spalle, rivolte altrove. E’un invito a seguirle, in un certo senso a cercare il lupo insieme a loro, ad immaginarne lo sguardo intento a scoprire l’ignoto – o forse semplicemente l’inascoltato. Si trattiene il fiato – tra il timore e la meraviglia. C’è il rosso, colore che inseguo e mi insegue, e c’è il filo che cuce il destino e ricama le possibilità. C’è il mistero del chi o che cosa ci sia dall’altra parte del filo a tenerne il capo perché ogni bosco ha dietro di sé un luogo, una radice, una nostalgia che si lascia e a cui si torna cambiati. Come se il cuore oscillasse tra ciò che ci trattiene e ciò che ci fa osare.

“Anche io nasco dal fondo di un lago – colmo di pianto”, dalla serie “Salva con nome” 2013

Anche io cresco dal fondo di un lago ÔÇô colmo di pianto

Alessandra Baldoni | “Anche io cresco dal fondo di un lago-colmo di pianto, dalla serie “Salva con nome” – stampa digitale su dibond, cm 70×50 – 2013.

Un omaggio ad una delle mie poetesse preferite, Antonia Pozzi, morta suicida a 26 anni. Le sue parole mi hanno nutrito, accompagnato, ferito e guarito. Ho camminato accanto a lei sulla neve, raccolto stelle alpine con il respiro sopra il crepaccio, amato l’ombra azzurra della montagna e pronunciato poesie come fossero preghiere. Parole incantesimo, bellissime e fragili come ghiaccio sopra l’acqua, parole che possono rompersi e portare via l’anima in un vortice liquido, un fondale di dolore.

“I Need Protection”, installazione- ferro vetro fotografia poesia, 2014

Giovanna_Lacedra_Alessandra-Baldoni-I need protection, particolare dell'installazione 3

Alessandra Baldoni | “I need protection”, particolare dell’installazione, ferro vetro poesia fotografia – 2014.

L’anno scorso sono stata invitata alla “Biennale del vetro” di Sansepolcro. Mi sono trovata a lavorare con un materiale per me nuovo e a dover ripensare il mio abituale modo di procedere. Ho chiesto a 21 persone di donarmi il loro segreto-desiderio più profondo o paura impronunciabile, così che io potessi custodirle e proteggerle, togliendo loro il peso e la gravità. Ho raccontato ogni loro frase/verso con un’immagine nascosta all’interno di uno scrigno. E’nata così l’installazione “I need protection”, scrigni di ferro e vetro, archivio sentimentale. Il vetro è fragilità trasparente, amore e spina. Ha cura di cose preziose ma può nello tesso tempo rompersi e diventare lama. Il vetro taglia, lacera la pelle e ne fa ferita. Biancaneve avvelenata dorme un sonno che sembra morte in una bara di vetro. L’amore può vederla e svegliarla con il suo bacio. Il vetro mostra la bellezza,  è diaframma che separa e misura. Teche di vetro proteggono le reliquie dei santi e raccontano il martirio. Noi da fuori osserviamo il miracolo. L’adorazione è fatta di visione. “I Need Protection” è un antidoto, un luogo che accoglie e si prende cura delle parole.

G.: L’opera d’arte che ti fa dire: “questa avrei davvero voluto realizzarla io!” ?

A.: Mi succede a volte ed è sempre bellissimo. Perché è come innamorarsi, riconoscere      un’appartenenza. Mi capita con le opere di Maria Lai, di Sophie Calle, di Sabrina Mezzaqui, Marzia Migliora e in molte altre circostanze. Quando qualcosa mi commuove o mi ferisce, quando sento con lo stomaco e lo stupore mi fa tremare il cuore.

G.: Un o una artista che non ti ha mai emozionato:

A.: Diciamo che non amo l’arte fatta apposta per stupire, urlata e colorata come un luna park, l’arte che mi dice esattamente cosa provare e che non lascia spazio al mistero. Devo sentire la verità da un’opera d’arte, non mi interessa il gioco o il clamore fine a se stesso.

G.: Un o una artista che avresti voluto esser tu:

A.: Più che altro avrei voluto essere Houdini

G.: In quale altro ambito sfoderi la tua creatività?

A.:  Ovunque posso perché da ogni luogo e direzione può venire la scintilla, l’idea. E’un attitudine, un modo di indossare la vita e di camminare nello spazio.

Alessandra Baldoni

Alessandra Baldoni

G.: Work in progress e progetti per il futuro:

 A.: Prima di tutto portare a termine il lavoro Orlando in ordine sparso”, dedicato all’“Orlando”di Virginia Woolf. Ho inoltre in mente di realizzare una serie di workshop dedicati al rapporto tra fotografia e narrazione. E poi un nuovo progetto fotografico/installativo in bianco e nero ed un lavoro dedicato a Vittoria Aganoor Pompilj (poetessa vissuta sulle sponde del mio lago) e una serie di mostre personali in giro per l’Italia.

 

G.: Il tuo motto in una citazione che ti sta a cuore

A.: “Preferisco il ridicolo di scrivere poesie, al ridicolo di non scriverne”  (Wislawa Szymborska)

“Se ho scritto è per pensiero/ perché ero in pensiero per vita” (Antonella Anedda)

 

Per approfondire:

http://www.alessandrabaldoni.it